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Covid-19: confermata la prima reinfezione di un paziente

Non è la prima volta che la notizia di una presunta reinfezione da CoViD-19 rimbalza tra siti, social e TG: questa volta, però, sulla possibilità di un nuovo contagio da SARS-CoV-2 nella stessa persona ci sono pochi dubbi. Un uomo di 33 anni residente a Hong Kong aveva contratto una lieve infezione da nuovo coronavirus lo scorso marzo, ed era stato ricoverato due settimane in ospedale fino alla completa guarigione, confermata da un doppio tampone negativo. In quell’occasione i medici avevano analizzato il profilo genetico del virus emerso dai tamponi.

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A metà agosto è però di nuovo risultato positivo alla covid durante un controllo di routine in aeroporto, di ritorno da una vacanza in Spagna con transito nel Regno Unito. Un test della saliva ha decretato che l’uomo, completamente asintomatico, era stato nuovamente contagiato, questa volta da un ceppo di virus circolante in Europa tra luglio e agosto 2020. Anche in questo caso secondo caso, il virus è stato sequenziato.

PROVE INEQUIVOCABILI. «I nostri risultati dimostrano che questa seconda infezione è stata causata da un virus acquisito di recente», chiarisce Kelvin Kai-Wang To, medico dell’Università di Hong Kong. Gli scienziati hanno trovato 24 differenze genetiche, tra il primo e il secondo campione di coronavirus, differenze che per i ricercatori non lasciano spazio ai dubbi: si è trattato di un’infezione nuova, sopraggiunta quando l’uomo era ormai guarito dalla prima.

I precedenti casi di presunta doppia infezione non potevano contare su un’analisi dell’RNA virale, e si erano inoltre verificati a poca distanza dal primo episodio. Rimaneva il dubbio che non si trattasse di un nuovo contagio, ma semplicemente dell’eredità del primo, con persistenti riserve di virus ancora presenti nell’organismo dei pazienti.

I DUBBI SOLLEVATI. Secondo una prassi poco ortodossa ma ormai consolidata dell’era covid, lo studio è stato anticipato da un comunicato stampa prima ancora della sua pubblicazione, che dovrebbe avvenire sulla rivista Clinical Infectious Diseases. Dati alla mano, sarà forse più facile rispondere alle domande che il caso apre: quanto spesso ci si può riammalare? La seconda volta si sviluppano sintomi più blandi, o non si sviluppano affatto? Chi è stato colpito da reinfezione è comunque contagioso? E se un’infezione naturale non garantisce un’immunità prolungata, il vaccino potrà farlo?

NIENTE PANICO. Alcuni scenari, come la possibilità che gli anticorpi anti covid durino pochi mesi e che anche chi si ammala di nuovo possa essere contagioso, avrebbero conseguenze preoccupanti in termini di salute pubblica. Altri invece rassicurano: il fatto che il paziente abbia montato una risposta immunitaria al secondo incontro col virus, tanto da risultare asintomatico, è per alcuni epidemiologi la prova lampante del corretto funzionamento del sistema immunitario. L’immunità si costruisce attraverso progressive esposizioni al patogeno: è anche il principio base dell’efficacia dei vaccini.

A dire il vero, a 10 giorni dalla prima infezione, l’uomo non presentava tracce di anticorpi IgG, i più potenti e quelli maggiormente impiegati nella seconda linea di difesa contro i patogeni. Le persone con bassi livelli di queste immunoglobuline potrebbero essere più vulnerabili a una seconda infezione, ma non sappiamo quante siano in percentuale.

COME PROTEGGERCI? Se è vero che ci si può riammalare e se anche i pazienti incorsi in reinfezione fossero contagiosi, a poco servirebbe la tanto invocata immunità di gregge. E dovremmo sperare in un vaccino sufficientemente potente da offrire una protezione a lungo termine. Non è impossibile: il vaccino contro il papillomavirus (che in alcuni Paesi ha quasi completamente debellato il tumore al collo dell’utero) offre per esempio una protezione più efficace rispetto all’infezione naturale contratta dall’uomo.

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