L’intenzione del governo Renzi di intervenire sul sistema universitario con una nuova riforma − l’annunciato progetto «La buona università» − si è affievolita. La riforma è slittata in basso nell’agenda politica governativa, anche per le dure contestazioni che ha ricevuto al suo esordio e alle reazioni negative di quasi tutti gli stakeholder all’iniziativa PD della «Carta di Udine». Il sistema universitario nazionale pertanto continua saldamente il suo rapido percorso di trasformazione innescato con la riforma Gelmini (con la legge 240/2010,IV governo Berlusconi) e proseguito dai governi successivi in piena continuità con il progetto originario di Tremonti-Gelmini, agendo attraverso molteplici e articolati interventi ministeriali di varia natura giuridica, tutti finalizzati comunque alla compressione selettiva e cumulativa dell’università italiana.
In questo quadro conta poco che con l’approvazione della Legge di Stabilità 2016 sia stato previsto un incremento del fondo per il finanziamento ordinario delle università statali (FFO) per il reclutamento nel biennio 2016-17: 113 milioni per nuovi professori e 115 milioni per nuovi ricercatori (a tempo determinato). Non tanto perché le risorse economiche siano irrilevanti, anzi al contrario è necessario invertire il trend e tornare ad investire massicciamente su formazione e ricerca; ma perché emerge come priorità ineludibile la necessità di rimettere mano alla regolazione del sistema universitario nazionale: sia per il quadro normativo, sia per il sistema e le pratiche di governance che si sono configurate negli ultimi anni.
L’università italiana, infatti, come è stato documentato in dettaglio dalla ricerca della Fondazione RES «Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud», curata dal prof. Gianfranco Viesti, nei suoi rapidi cambiamenti recenti ha evidenziato alcune criticità che compromettono la sua capacità di contribuire alla crescita culturale, sociale ed economica del paese. A differenza di quanto è auspicato dalle strategie dell’UE, il sistema di formazione universitaria in Italia si è ridimensionato, qualsiasi sia l’aspetto considerato, e ciò è accaduto a fronte di indicatori statistici che dicono che la quota di laureati in Italia tra i giovani tra i 30-34 anni è la più bassa dell’UE-28. Sono, contestualmente, aumentati i divari sociali nell’accesso all’istruzione universitaria: i giovani appartenenti ai ceti popolari e spesso anche ai ceti medi indeboliti dalla crisi, sia per ragioni economiche, sia per la percezione che il titolo universitario sia sempre meno strumento di mobilità sociale ascendente, non investono nella loro formazione e questo fenomeno è accentuato dall’incremento delle tasse universitarie e dalla contestuale riduzione dell’investimento pubblico nei fondi per il diritto allo studio, penalizzando le aree sociali e territoriali più deboli del paese. Si è, infatti, fortemente accentuato il divario tra il Nord e il Sud del paese: le università meridionali, sistematicamente sottofinanziate, perdono personale, tagliano i corsi di laurea e perdono studenti, riducono l’attività di ricerca e l’impegno culturale per il territorio. Rimane, poi, bassa l’attrattività internazionale: mentre sempre più studenti e ricercatori italiani scelgono di sviluppare la propria carriera all’estero, i nostri atenei − soprattutto al Sud − non sono in grado di alimentare la stessa attrattività e ciò riguarda non solo le opportunità accademiche, ma anche la qualità complessiva della vita universitaria, penalizzata spesso da politiche urbane poco sensibili alle esigenze delle comunità universitarie.
Nell’insieme la Fondazione RES ricostruisce una situazione allarmante che riguarda un’area cruciale per il futuro del paese. Anche mettendo da parte i discorsi enfatici sulla «società della conoscenza», è infatti indubbio che il sistema universitario statale rappresenti un’istituzione cruciale per la crescita civile e l’innovazione economica e che perciò richiede di essere messo al centro dell’azione politica a tutti i livelli di governo. Bisogna però far attenzione al fatto che si tratta di un mondo sociale estremamente differenziato al suo interno e con equilibri delicati che richiedono, a differenza di quanto si fa ora, appropriati sistemi di governance e molta cura nella definizione degli interventi normativi. È auspicabile, quindi, un’azione immediata sulle storture prodotte dalla riforma Gelmini per poi aprire un ampio e partecipato dibattito pubblico, liberato dalle rappresentazioni denigratorie e dalle posizioni ideologiche, per elaborare politiche ben informate e sensibili alla natura e alle specificità del mondo universitario.