A questa domanda risponde Romano Prodi nell’intervista concessa a Giulio Santagata e Luigi Scarola, pubblicata in un volumetto apparso in questi giorni nelle librerie (Romano Prodi, Il piano inclinato, Il Mulino editore, Bologna, maggio 2017, prezzo 13 euro).
Il piano inclinato lungo il quale rotola la nostra economia almeno da dieci anni a questa parte, è fatto di uno sviluppo lento e al tempo stesso disuguale, che colpisce ed emargina soprattutto i giovani, specie quelli che nascono nel Mezzogiorno e non trovando lavoro sono indotti ad emigrare al Nord e all’estero oppure sono costretti a ristagnare localmente dandosi a piccole occupazioni precarie e sopravvivendo a carico delle famiglie.
Le cause di questa crescita economica debole e squilibrata sono alcune esogene, esterne al nostro Paese (come la globalizzazione dei mercati con l’apparizione recente di alcuni produttori, i Paesi a basso costo della manodopera; la diffusione delle nuove tecnologie, tra cui quelle digitali; e soprattutto il ruolo preminente assunto dalla finanza internazionale), ma altri fattori dello sviluppo lento e disuguale dell’Italia sono endogeni, di natura interna.
Romano Prodi mette il dito sulle piaghe dell’Italia, che concorrono ad abbassare la crescita economica: la concentrazione dei redditi e dei patrimoni, che riduce la domanda della nostra popolazione per consumi; il rallentamento della produttività del lavoro; la formazione professionale poco orientata verso le discipline tecniche; l’impoverimento del tessuto imprenditoriale con la scomparsa di grandi imprese e il rachitismo di molte sopravvissute quando non sono passate in mano degli stranieri; le banche italiane appesantite da crediti inesigibili e addetti in esubero, spiazzati dalle nuove tecnologie; una pubblica amministrazione costosa e farraginosa che ostacola anzichè agevolare le imprese nascenti.
Prodi comunque è fiducioso che l’Italia possa nell’arco di pochi anni affrontare e risolvere questi problemi attenuando le attuali difficoltà e riguadagnando una crescita economica più alta e socialmente meno squilibrata. Il suo programma è per una crescita dell’economia che sia inclusiva, capace cioè di includere, di valorizzare le nostre migliori energie e al tempo stesso capace di dare un sostegno a quanti rimangono ai margini della società, ai poveri, agli anziani, ai disabili, per i quali l’erogazione di un reddito da parte dello Stato dovrebbe accompagnarsi con il premio ad una loro pur modesta partecipazione agli sforzi collettivi.
Le pagine più confortevoli di quest’intervista sono quelle nelle quali Romano Prodi richiama e valorizza la tradizione civica sedimentata nell’esperienza italiana, cioè il ruolo delle organizzazioni non lucrative e delle imprese cooperative (il cosiddetto terzo settore) nel favorire l’inclusione sociale. Ugualmente sono da apprezzare le indicazioni di Prodi sulla nuova frontiera che si apre alla gestione delle imprese private della manifattura e dei servizi in quanto questa gestione sia sempre più legata al territorio di appartenenza piuttosto che essere ossessionata dalla ricerca di dividendi da distribuire ai proprietari e dall’assegnazione di benefici ai dirigenti.
Il volumetto che raccoglie il Prodi pensiero, pone almeno due problemi al lettore che ne condivide le idee: dove sono le forze politiche capaci di accogliere e promuovere il programma che Prodi presenta? E poi c’è posto in questi partiti per i cosiddetti saggi, per persone come Prodi, che possano collaborare al futuro governo del Paese oppure la politica italiana ormai è polarizzata da un lato sui politici di professione e dall’altro lato sugli sprovveduti “amici del popolo” che pretendono di gestire la cosa pubblica senza conoscerne i meccanismi ma semplicemente, come si dice a Napoli, facendo ammuina?
Mariano D’Antonio, economista