Fiumi di commenti hanno accompagnato gli sciagurati scontri avvenuti a Napoli sabato 11 marzo tra i dimostranti, pochi ma aggressivi, e le forze dell’ordine nel quartiere di Fuorigrotta per la presenza del leader della Lega Nord Matteo Salvini.
Al centro dei commenti si sono collocati i due antagonisti della vicenda napoletana, il sindaco di Napoli e il segretario della Lega Nord, il primo per aver tentato d’impedire a Salvini di venire in città, di occupare una sala e di tenerci un comizio, il secondo per aver recitato la parte del martire di una discriminazione inaccettabile, di un campione di democrazia e di buone maniere.
Il sindaco de Magistris non si è accorto di aver reso involontariamente un grande servizio a Salvini, di averlo promosso ai primi posti nei mezzi di comunicazione, perchè altrimenti il leghista avrebbe ottenuto solo poche righe e pochissime immagini su giornali, radio e televisioni.
I veri avversari politici del leghista-nordista, quelli autentici, che contrastano le sue tesi sugli immigrati da respingere ad ogni costo, sul federalismo che dovrebbe servire a separare il Nord dal Sud d’Italia, sull’abbandono dell’Unione europea e sul ritorno alla nostra sovranità monetaria, alla liretta, ripudiando l’euro, hanno difeso il diritto di Salvini di propagandare anche a Napoli le sue opinioni per quanto siano demagogiche e fonte di divisioni tra gli italiani, perciò inaccettabili.
Gli autentici avversari di Salvini così agendo in nome della civiltà e della democrazia hanno fatto venire alla memoria la celebre frase di Voltaire: “dissento da quello che tu dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”.
Il tentativo successivo di de Magistris di giustificare maldestramente l’agitazione di piazza da lui sobillata, il disordine e l’aggressione promossa da alcuni sedicenti esponenti dei centri sociali, questo tentativo ha toccato la vetta del ridicolo quando il sindaco di Napoli ha sostenuto di aver agito in rappresentanza dello Stato. E’ stato facile a qualcuno ricordare l’espressione attribuita al sovrano di Francia Luigi XIV, noto poi anche come il Re Sole, il quale volendo ribadire la sua posizione di despota assoluto avrebbe affermato: “lo Stato sono io”. Qualche altro osservatore, in vena di ricordi storici, ha però addolcito la presunta arroganza del sovrano francese raccontando che sul letto di morte egli avrebbe detto: “Io me ne vado ma lo Stato resterà sempre”.
L’episodio napoletano degli scontri di piazza tra gli esagitati seguaci del sindaco e le forze dell’ordine, oltre che richiamare qualche aneddoto sulla storia dei despoti, solleva questioni di maggiore e interesse sull’attuale congiuntura politica dell’Italia e di Napoli in particolare.
La prima questione è il nesso che è divenuto evidente tra la crisi della politica intesa come progetto di gestione o, meglio, di trasformazione della società e la proliferazione del populismo nelle sue diverse versioni. Non è facile vedere questo nesso, che però esiste e agisce nel profondo delle nostre vicende.
Quando la politica non è più capace di interpretare le aspirazioni, per non dire i sogni, di cambiamento, di miglioramento della condizione dei cittadini; quando la politica diventa semplice esercizio del potere, costruzione di sistemi di comando privi di un’espliticita finalità collettiva; quando la professione del politico è percepita dai cittadini prevalentemente come privilegio e distacco dai risultati che i politici ottengono; quando tutto ciò avviene, si creano le premesse per la negazione della politica e la diffusione della demagogia, di diverse forme di populismo.
La forma più ingenua e forse nobile di populismo sta nel negare la necessità della politica come professione: il politico, dicono i populisti, è una persona che esercita occasionalmente il potere di governare le istituzioni, può farlo su mandato degli elettori ma per un tempo limitato, cessato il quale dovrà cedere il potere di governo ad altri. L’attività politica dovrebbe essere perciò un’occupazione temporanea. Altrimenti diventa fonte di privilegi che si consolidano e in molti casi si trasmettono da padre a figlio/a.
Un’altra forma di populismo è l’avversione alle istituzioni diciamo larghe, sovranazionali e in alcuni casi anche a quelle sovraregionali. Il populista in questo caso insegue l’aspirazione all’autogoverno delle popolazioni e dei territori in cui convivono popoli omogenei per razza, religione oppure almeno per cultura e accettazione di valori comuni, nel caso della convivenza tra popoli di diversa origine.
La condizione economica preferita dai populisi poi riflette spesso il mito delle comunità composte da persone sobrie che lavorano poco e guadagnano ugualmente poco. Gente che fa a meno di consumi vistosi, che accetta un’esistenza modesta e, se non ce la fa a vivere perchè non ha un lavoro e non porta a casa il minimo per vivere, riceve un sussidio pagato con i proventi della tassazione a carico dei contribuenti benestanti.
La sirena del populismo si fa sentire oggi in Italia in molti territori. Suona, ad esempio, a Roma dove è stata eletta sindaco un’avvocatessa priva di esperienza e di cultura necessarie ad amministrare una grande città complicata e afflitta da gravi problemi (periferie degradate, trasporti pubblici da sempre mal gestiti, presenza di criminalità e di corruzione negli uffici comunali). E si fa sentire anche a Napoli, città nella quale convivono il disagio sociale per la mancanza di lavoro specie tra i giovani, fasce estese di popolazione povera come i pensionati al minimo, servizi sanitari insufficienti, trasporti collettivi esercitati con mezzi vecchi e fatiscenti, spesa sociale ridotta e inadeguata ai bisogni dei cittadini.
A Napoli la politica autentica, quella che combina buona amministrazione e visione lungimirante dei bisogni sociali da soddisfare, ha ceduto il terreno a una gestione affannosa del Comune condita con l’agitazione e la contrapposizione al governo da parte del sindaco e della giunta.
A queste forze protestatarie stenta a fare da contrappeso il Partito democratico, lacerato nelle sue diverse componenti frammentate e ridotte in alcuni casi ad essere testimonianza, in altri casi ad agire come subalterne del sindaco e dei suoi seguaci.
Sull’economia locale la miscela di populismo e sfascio dei servizi sociali, di vacuo leaderismo e cattiva amministrazione della cosa pubblica, provoca una perdita di attrazione degli investimenti produttivi d’origine esterna, delle grandi imprese internazionali, che evitano di localizzare nuove iniziative nel territorio di Napoli.
Al tempo stesso i fermenti di sviluppo locale, di crescita delle imprese nelle produzioni tradizionali (abbigliamento, calzature), nell’agroalimentare, nel settore dell’accoglienza dei turisti (alloggio e ristorazione) non sono assecondati nè stimolati da politiche coerenti delle istituzioni locali.
La caduta della politica di alto profilo fa spazio al populismo che a sua volta blocca l’economia napoletana.
Mariano D’Antonio economista (apparso su Qualcosa di Napoli)