Ha creato scompiglio e polemiche dentro e fuori del Partito Democratico un’affermazione di Matteo Renzi sugli emigranti che sbarcano nei porti italiani provenendo soprattutto dalle coste libiche su imbarcazioni di fortuna. Renzi ha detto sui migranti: diamo un aiuto allo sviluppo locale dei Paesi d’origine piuttosto che una generica accoglienza qui da noi.
I critici non sempre sereni di Renzi, tanto quelli che hanno lasciato il PD quanto coloro che militano ancora nel Partito pensando che le primarie non finiscono mai (come gli esami della commedia di Eduardo De Flippo), i critici di Renzi, dicevo, non hanno perduto l’occasione offerta dalla frase del segretario PD per tornare alla ribalta della cronaca politica nonostante l’afa di un’estate asfissiante.
Eppure Renzi ha espresso un’opinione politicamente corretta, progressista, non demagogica, che supera il “buonismo” velleitario di coloro che a fronte degli emigranti danno la stura alla propria coscienza sporca di gente che si ritiene fortunata e si riempiono la bocca della parola “accoglienza”. L’emigrazione di migliaia di donne, uomini e bambini, che affluiscono dall’Africa in Italia è composta, infatti, solo in piccola parte da persone in cerca di un asilo perchè colpite da persecuzioni, discriminazione, pericoli all’esistenza personale, dai cosiddetti rifugiati. In gran parte gli emigranti sono invece emigranti per motivi economici, cioè gente alla ricerca di un lavoro e di un tenore di vita dignitoso. I rifugiati saranno sottoposti dalle autorità italiane ad un esame a conclusione del quale saranno accolti in Italia e aiutati a inserirsi socialmente. Gli emigranti economici invece necessitano di un’assistenza che li ponga in grado di avviarsi ad un’attività, e dunque avranno bisogno di un sostentamento temporaneo (vitto e alloggio) e soprattutto di acculturamento e di formazione professionale.
Il problema che si pone ad una politica autenticamente di sinistra, è se sia meglio fronteggiare l’emigrazione per motivi economici (il fenomeno dominante) con interventi di sostegno per la sopravvivenza dei migranti e investimenti in capitale umano, in formazione, attuati sul territorio italiano. Oppure non sia organizzativamente, umanamente ed anche economicamente più opportuno intervenire nei Paesi di origine degli emigranti con politiche di sviluppo concordate tra il governo italiano e i governi, poniamo, dell’Africa a sud del Sahara.
Porsi quest’interrogativo per un partito orientato a sinistra come il PD non ha niente a che fare con le tesi razziste, sovraniste, della destra italiana, della Lega Nord di Salvini, e neppure con le ambiguità politiche dei seguaci di Beppe Grillo, oscillanti tra destra e sinistra.
Tra le due opzioni (un’accoglienza piena, completa, offerta agli emigranti economici in Italia oppure un’aiuto allo sviluppo concordato tra le autorità italiane e i governanti dell’Africa) si possono manifestare preferenze e rifiuti. Ambedue le opzioni richiedono differenti tempi, sforzi organizzativi, risorse finanziarie necessarie.
Qui si possono accennare due tipi di rischi politici, sociali e anche economici, che si corrono nell’uno e nell’altro caso. Il rischio di un’accoglienza completa degli immigrati economici è d’innescare tra i cittadini italiani, specie nella popolazione emarginata (poveri, giovani in cerca di lavoro, anziani a reddito minimo), un sentimento d’invidia sociale nei confronti degli immigranti “fortunati” che sarebbero visti come rivali nell’assegnazione di sussidi pubblici. Quest’invidia si alimenta anche dei possibili comportamenti trasgressivi assunti da alcuni migranti ospitati nei centri di accoglienza.
Nel caso di un “aiuto a casa loro” invece l’esperienza già sperimentata dagli anni ’80 in poi è stata di favorire una coalizione d’interessi parassitari tra politici locali dei Paesi africani, imprenditori
italiani a caccia di commesse finanziate con fondi pubblici del nostro governo, burocrazia degli organismi internazionali attivi in Africa.
Conosco una sola eccezione al malgoverno diffuso in Africa. Trent’anni fa, nel dicembre 1986, ho capeggiato un gruppo di studio incaricato di esaminare la situazione economica di un Paese africano a sud del Sahara, Burkina Faso, espressione che significa in dialetto locale “Terra degli uomini integri”, Paese un tempo chiamato Alto Volta. La nostra missione era di esplorare l’aiuto allo sviluppo che l’Italia avrebbe potuto offrire alle autorità locali. Il Paese da due anni era governato da una giunta militare capeggiata da un giovane capitano, Thomas Sankara, e come lui composta (caso strano perchè singolare) da persone oneste, considerate perciò con sospetto da diplomatici europei e funzionari di istituzioni internazionali. I nostri interlocutori del governo Sankara guardavano con simpatia all’Italia repubblicana che si era lasciata alle spalle una pesante eredità coloniale e si aspettavano da noi un’assistenza tecnica piuttosto che il massiccio finanziamento di progetti d’investimento.
Conclusa la nostra missione e rientrati in Italia, seguimmo a distanza le vicende politiche di Burkina Faso. Pochi mesi dopo la nostra partenza, nell’ottobre del 1987, il capitano Sankara che aveva appena 38 anni, fu ucciso da congiurati anch’essi militari e il suo posto fu preso da un altro ufficiale dell’esercito, Blaise Compaoré, rivelatosi poi molto amico della Francia, degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali. Due anni fa, nel 2015, Compaorè che ha governato da despota per 27 anni di seguito Burkina Faso ed era intanto emigrato in Costa d’Avorio, è stato incriminato in contumacia per stragi e misfatti compiuti nel tempo.
Non ho conoscenza della situazione politica di altri Paesi africani da cui provengono in migliaia gli emigranti economici che approdano in Italia. Non vorrei però che l’Italia finanziando l’aiuto allo sviluppo sostenesse un ceto politico locale dispotico e corrotto.
Mariano D’Antonio, economista