Proveniente da una famiglia agiata che enumerava numerosi studiosi di medicina e scienze naturali, Domenico Cirillo (nato a Grumo Nevano, vicino Napoli, l’11 aprile 1739) si dedicò in primo luogo alla medicina, disciplina in cui conseguì la laurea nel 1759. Seguendo le orme dei suoi antenati, a ventuno anni divenne professore ordinario di botanica, cattedra che tenne fino al 1777, anno in cui passò alla cattedra di medicina teorica.
Cirillo pubblicò a Napoli le sue maggiori opere botaniche, zoologiche e mediche, alcune delle quali furono tradotte all’estero, dove effettuò molti viaggi che erano la sua passione e che lo portarono a visitare i centri culturali più in vista d’Europa, stringendo amicizia con famosi intellettuali e scienziati dell’epoca.
Fu, probabilmente, per le maldicenze circa l’ottenimento dell’insegnamento grazie ad importanti raccomandazioni che Cirillo decise di concorrere per la cattedra di medicina teorica (salvo poi passare a quella di medicina pratica) anche se in botanica continuò a cimentarsi per tutta la vita.
Cirillo costruì da qui la sua carriera scientifica e professionale: era professore di fisiologia e ostetricia nell’Ospedale degl’Incurabili e medico di molte famiglie anche aristocratiche.
In campo medico il suo impegno fu dedicato soprattutto allo studio e alla cura di malattie molto diffuse, a cominciare dalla sifilide. Per Cirillo, come per altri medici operanti a Napoli nel secondo Settecento, la medicina doveva svolgere un’importante funzione sociale. Da qui le denunce del degrado in cui versavano ospedali e prigioni e le critiche rivolte ai troppi medici che, “guidati dall’orgoglio” e “spinti dall’avarizia”, calpestavano il “dovere” di istruirsi e abbandonavano “al caso la vita di tanti utili cittadini”.
Furono queste esigenze culturali ed etico-morali che spinsero Cirillo verso le idee illuministiche prima e giacobine poi, fino ad avere un ruolo di rilievo, anche se poco voluto, nelle vicende rivoluzionarie del 1799.
L’attività politica di Domenico Cirillo fu tanto originale ma alquanto breve e, in questa, molto giocò l’amicizia con il giurista Mario Pagano. Dopo ripetuti inviti del generale Championnet, sotto lo stimolo del Pagano, accettò di far parte della Commissione legislativa della Repubblica Napolitana, nella quale divenne presidente. In tale veste elaborò un “Progetto di carità nazionale” che prevedeva la costituzione di un fondo per l’assistenza popolare, creato in buona parte con i suoi stessi averi.
Ad ogni modo, seguendo una strada già percorsa in gioventù (quando offriva prestazioni mediche gratuite ai più disagiati), Cirillo concentrò il suo operato politico soprattutto in ambito umanitario, patrocinando le fasce più povere della popolazione. Domenico e il suo amico Pagano iniziarono una serie di confische delle proprietà di monarchici esiliati per sostenere le loro ricerche e aiutare materialmente chi ne aveva bisogno.
Dopo la caduta della Repubblica e il fallito tentativo di recarsi in Francia via mare, fu rinchiuso prima in Castel Nuovo e poi in Castel Sant’Elmo, dove gli giunse la notizia della condanna a morte. Cirillo non volle degradarsi chiedendo perdono per colpe che non aveva commesso ed il Re Ferdinando I, giudicandolo “sciocco e ostinato”, lo mandò a morte per impiccagione sul patibolo, sentenza eseguita il 29 ottobre in piazza Mercato, assieme all’amico Mario Pagano.
<<Quando il generale Championnet venne a Napoli, mi fece chiamare e mi designò come uno dei membri del Governo Provvisorio, ch’egli stava per stabilire. Il giorno dopo gl’inviai una lettera, e rassegnai formalmente l’impiego, e non lo vidi più. Durante tre mesi, io non feci altro che aiutare col mio proprio denaro e con quello di alcuni amici caritatevoli il gran numero di poveri esistenti nella città. Io indussi tutti i medici, chirurgi ed associazioni, ad andare in giro a visitare gl’infermi poveri, che non avevano modo di curare i loro malanni. Da questo periodo, Barial venne a stabilire il nuovo governo, ed insistette perché io accettassi un posto nella Commissione legislativa. Io ricusai due o tre volte; ed in fine fui minacciato e forzato. Che cosa potevo fare, e in che modo, e che cosa potevo opporre? Tuttavia, nel breve tempo di questa amministrazione, io non feci mai un giuramento contro il re, né scrissi né mai dissi una sola parola offensiva contro alcuno della Famiglia Reale, né comparsi in alcuna delle pubbliche cerimonie, né venni ad alcun pubblico banchetto, né vestii l’uniforme nazionale: non maneggiai danaro pubblico, e i soli cento ducati in carta che mi dettero, furono distribuiti ai poveri. Le poche leggi, votate in quel tempo, furono soltanto quelle che potevano riuscire benefiche al popolo>>.
(D. Cirillo, Lettera a Lady Hamilton (3 luglio 1799), tradotta dall’inglese e pubblicata in B. Croce, La Rivoluzione napoletana del 1799).