Ricapitolando, gli uomini sono tutti uguali. Eccetto i Papà .
Papà, le sue sono le parole che ti risollevano, le braccia che ti avvolgono e ti proteggono, lo sguardo che sa dirti tutto,un riconoscersi attraverso il profumo della pelle. Un tocco che, se anche lieve, sa darti una tranquillità incomparabile. Nulla potrà separarti, come nulla potrà portarmi lontano da lui. L’amore che provi per lui vale più della tua stessa vita. E, la piccola Gianna Bryant, sono sicura non può non essere d’accordo con me. Per la figlia della stella del basket non era stato scritto un destino semplice, ma soprattutto felice. Di fatti, questa mattina, la piccola, ha perso la vita insieme al suo papà, tra le sue braccia. Kobe Bryant è morto a 41 anni in un incidente in elicottero a Calabasas, in California.
La notizia è riportata dai siti americani, primo Tmz, poi Variety e quindi il Los Angeles Times. Secondo le prime ricostruzioni, il velivolo si sarebbe schiantato al suolo intorno alle 19 italiane e avrebbe preso fuoco, provocando la morte dell’ex cestista e di altre quattro persone che erano con lui compresa la figlia 13enne , già giovane campionessa di basket. Conosciuta da tutti con il soprannome di Gigi, Gianna aveva come le altre figlie di Kobe un nome italiano. Nata il primo maggio 2006 era la seconda figlia dell’ex stella dei Lakers. Attualmente giocava per i Los Angeles Lady Mamba girls basketball e sognava di diventare una giocatrice della Wnba e di giocare a livello universitario per le UConn Huskies. Secondo tutti gli osservatori aveva un grande talento per la pallacanestro e sarebbe potuta diventare una stella di questo sport proprio come suo padre.
Alle 10 del mattino californiane stavano andando alla Mamba Academy fondata dal campione per un allenamento. Il 5 volte campione dell’Nba è uno dei giocatori di pallacanestro più famosi al mondo. Appena qualche ora prima dell’incidente si era congratulato attraverso Twitter con LeBron James che lo ha superato nella classifica dei migliori realizzatori di sempre nel campionato americano. Non erano con lui sull’elicottero la moglie Vanessa e le tre figlie più piccole Natalia, Bianca e Capri, nata nel giugno del 2019, al momento dell’incidente. Nella zona dell’incidente pare ci fosse una nebbia fitta. Kobe Bryant aveva trascorso parte dell’infanzia e dell’adolescenza, dai 6 ai 13 anni, in Italia dove il padre giocava a pallacanestro. Da qui è partita la sua carriera di giocatore nell’Nba dove è arrivato, caso raro, saltando il college. Nel campionato americano ha militato vent’anni e l’ultima stagione è stato un tour d’addio terminato con la lettera d’amore per il basket che è diventata un cortometraggio premiato con l’Oscar.
Una vita da cinema. Vent’anni da numero uno. 1346 gare, l’addio a 37 anni – aprile del 2016 – distillato in una lenta processione d’affetto lungo tutti i palazzetti d’America. La password per entrare nel favoloso mondo di Kobe Bryant è una sola: amore. Per lo sport, per quello che fai, ogni maledetto giorno, per il rumore sordo dei rimbalzi del pallone, per l’adrenalina.
L’amore che ci ha messo quando giocava, l’amore in questa «second life». Il film è un atto d’amore per questo sport. Dura quattro minuti. Dentro c’è tutto Kobe, non più e non solo idolo d’America, ma uomo che scende dal poster e si «sporca» con la vita. «Dear Basketball» è ispirato alla lettera che Kobe scrisse nel giorno del ritiro. «Cara pallacanestro,
sono pronto a lasciarti andare, in modo che entrambi possiamo assaporare ogni momento trascorso insieme. Quelli belli e quelli brutti. Ci siamo dati tutto», scrisse. «Il mio cuore può sopportare la battaglia. La mia mente può sostenere la fatica. Ma il mio corpo mi dice che è tempo di dirti addio», ha scritto Bryant. «Dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te. Un amore così profondo che ti ho dato tutto dalla mia mente al mio corpo dal mio spirito alla mia anima».