La divisione all’interno di SEL è solo tra esponenti che vogliono allearsi con Renzi e altri no, oppure lei crede che ci siano motivazioni più profonde?
«Il dibattito che ha diviso SEL in questi mesi ha avuto solo marginalmente a che fare con il giudizio sul presidente del Consiglio. I veri punti dirimenti sono incardinati sulla cultura politica, sul profilo programmatico del partito, sull’idea del ruolo e del carattere di una coalizione di governo. Intorno a questi nodi si è ragionato, a dire il vero, non sempre con la necessaria trasparenza, tant’è che la frizione tra le due diverse impostazioni veniva esplicitamente alla luce solo nel recente Congresso nazionale. S’innescava allora una deriva massimalista, inaspettata per molti di noi e non contrastata in maniera adeguata (va detto) da tanta parte dello stesso gruppo dirigente. Certo, Matteo Renzi in qualche modo è stato il convitato di pietra che ha fatto esplodere la polveriera. Il patto del Nazareno, infatti, precedeva di pochi giorni la nostra assise, provocando una reazione di rigetto (peraltro assolutamente legittima e condivisibile) contro un insopportabile compromesso giocato sulla pelle degli italiani e degli equilibri costituzionali. Quella stessa reazione, però, determinava anche uno scarto, coltivato sottotraccia da tempo, che ribaltava inopinatamente la linea politica di SEL, esprimendosi nelle prese di distanza dal centrosinistra e da una prospettiva riformista e di governo, in un passo indietro dal PSE e, soprattutto, nella decisione di lasciarsi cooptare in termini subalterni nell’esperienza de “l’Altra Europa con Tsipras”: un’operazione frettolosa e calata dall’alto che condizionava i termini della nostra partecipazione alla lista unitaria, quasi trascinando sul piano delle preferenze il confronto avviato e mai compiutamente definito nel congresso. Peraltro, nonostante l’enorme contributo di SEL (finanziario, organizzativo e, alla fine, elettorale) eravamo perfino mal tollerati da compagni di viaggio che avevano immaginato la propria proposta come una sfida a tutto il centrosinistra (SEL compresa). Lo stesso autoproclamato comitato dei garanti nazionali della lista de “L’Altra Europa” rispondeva a una logica verticistica (mi verrebbe da dire gruppettara, considerate la biografie politiche di alcuni di loro) che non aiutava certo a svelenire i toni o a rendere più comprensibili gli stessi criteri adottati per la composizione delle liste. Tutte queste ambiguità si sono proiettate nel dopo voto, con il tentativo di costruire a tavolino una nuova soggettività politica animata da simpatie grilline, risentimenti girotondini e nostalgie sessantottine. Invece di contrastare politicamente quel tentativo, una parte del gruppo parlamentare ha scelto di abbandonare SEL. Per essere chiari, pur condividendo molte delle analisi di Gennaro Migliore e di Claudio Fava, ritengo che andando via abbiano commesso un secondo grave errore (dopo quello di non dare battaglia al Congresso in modo organizzato, come invece avviene in tutte le comunità umane regolate dal principio democratico), indebolendo un confronto e accentuando i termini di una insopportabile (a tratti perfino isterica) deriva radicale».
Noti esponenti del PD dicono apertamente che l’ostruzionismo al Senato rischia di far saltare le alleanze a livello locale.
«I “noti esponenti del PD” ai quali fa riferimento hanno evidentemente introiettato la parte peggiore del renzismo: l’arroganza. Sono proprio loro i migliori alleati di coloro vorrebbero rinchiudere SEL nel recinto identitario di una sinistra protestataria, tutta concentrata sulla coerenza dei propri principi, ma assolutamente distante dai drammi concreti del Paese. Sbagliano gli uni e gli altri, mentre mi sento di condividere fino in fondo le parole di Arturo Scotto: vogliamo discutere nel merito delle riforme e non cediamo a ricatti di alcun genere. Il combinato disposto tra Italicum e nuovo Senato non elettivo è una tale offesa alla cultura giuridica e democratica del Paese che non c’è minaccia che possa far venir meno le nostre preoccupazioni e la nostra battaglia. Peraltro, per questa strada e con questo atteggiamento autosufficiente, “i noti esponenti del PD” sono così certi di portare a casa un risultato positivo nelle ormai imminenti regionali? Non conosco bene la vicenda pugliese, ma mi è ben chiara quella campana. Sembra quasi che qualcuno stia facendo di tutto affinché Caldoro torni a vincere».
In che cosa ha sbagliato il presidente Vendola, perché non è riuscito a sfondare, a crescere nella sinistra italiana. Quali i limiti politici ed organizzativi?
«SEL è oggi in grande difficoltà, ma non credo che il suo destino sia segnato. Anzi, c’è un enorme spazio aperto per una sinistra che non si voglia rassegnare alle larghe intese, all’autocrazia giovanilistica del PD, guardando al socialismo europeo come al proprio campo politico e valoriale. Il limite del gruppo dirigente di SEL (non si può ridurre tutto alla sola leadership di Vendola) è stato, secondo me, quello di non aver creduto fino in fondo in questa prospettiva, sbandando di fronte alla torsione inaccettabile del Nazareno e della consociazione in salsa renziana. Bisognava combattere sia l’una che l’altra, tenendo ben fermo il proprio ancoraggio all’ispirazione originaria di SEL».
Come mai SEL è solo un luogo di ex provenienti da altri partiti e non è riuscita invece ad aggregare forze singole e associate?
«Non ci sono solo ex provenienti da altri partiti (che non demonizzerei in ogni caso). La componente più vitale di SEL è quella dei giovani, dei «nativi». A questi, davvero, dedicherei maggior attenzione e un più ampio spazio, per quel tanto di buono che dicono e che sanno fare, non soltanto né principalmente per questioni anagrafiche. L’età è una condizione, non un merito. Ma i ogni caso rappresentano un futuro possibile, per SEL e per la sinistra italiana».
Come vi state preparando per le prossime elezioni regionali in Campania ?
«Il coordinatore regionale di Sel, Salvatore Vozza, ha scritto da tempo ai segretari del centrosinistra per sollecitarli a un chiarimento sul terreno delle alleanze e per porre con chiarezza tre principi fondamentali: 1) ricostruzione di una coalizione di forze democratiche (andando oltre l’esperienza del passato, con una maggiore apertura a personalità e forze collettive); 2) no alle larghe intese, comunque siano articolate; 3) centralità programmatica dell’emergenza sociale ed economica di un Mezzogiorno abbandonato da troppo tempo a se stesso. Il tema più urgente è proprio quest’ultimo, come le recenti anticipazioni dello Svimez non hanno fatto altro che confermare. Per questa ragione, stiamo preparando un’iniziativa programmatica di valore nazionale da tenersi in Campania, ma che riaccenda i riflettori su tutto il Sud, sulla sua devastazione e sulle sue potenzialità, per reclamare (dopo un ventennio di illusioni federaliste e liberiste che hanno largamente inquinato lo stesso campo del centrosinistra) una politica meditata e non settoriale di sviluppo che, partendo dal Mezzogiorno, dia un nuovo slancio all’intero Paese».
Con quali uomini, quali alleanze?
«È intorno a questo confronto di merito che vogliamo definire anche i caratteri delle candidature, l’articolazione delle liste, l’indicazione del candidato presidente. Se tutto si deve risolvere, invece, in una sorta di regolamento di conti interno tra maggiorenti del PD, non solo siamo poco affascinati, ma rischiamo — tutti — di essere trascinati in una palude senza via d’uscita».