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E SE LO SMART WORKING FOSSE LA SOLUZIONE E NON L’ALTERNATIVA?

La pandemia che, conseguente all’emergenza sanitaria, ha innescato la chiusura a catena delle attività, sta costringendo le aziende alla formulazione di innovativi modelli lavorativi, stravolgendo l’ormai radicata e diffusa idea che, un luogo fisico in cui recarsi, sia necessario al fine di adempiere alle proprie mansioni.

Lo Smart Working   che, nella prassi, è inteso come “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”, è visto oggi come l’unica alternativa in grado di fronteggiare una grave crisi economica.

Ha suscitato clamore la svolta presa da Twitter circa la decisione di approvare lo smart working  permanente, ponendo i propri dipendenti dinanzi alla scelta di effettuare l’attività lavorativa da remoto anche dopo l’emergenza Covid19;  come ha precisato in una nota la responsabile delle risorse umane del social Jennifer Christie:  “Gli ultimi mesi hanno dimostrato che possiamo far funzionare il lavoro in remoto. Quindi, se i nostri dipendenti hanno un ruolo e una situazione che consentono loro di lavorare da casa e vogliono continuare a farlo per sempre, faremo in modo che accada”.

Una rivoluzione che travalica i confini della California, scuotendo gli assetti delle aziende mondiali.

L’Italia è costretta a fare i conti con la forte arretratezza digitale, scoprendo un pericoloso digital divide, che trascina in panchina un terzo della popolazione e che impedirà una veloce ripartenza del Paese. I dati diffusi dall’Istat il 7 aprile 2020 riportano una situazione allarmante: il 33,8% delle famiglie non possiede un pc o un tablet in casa, il Mezzogiorno si trova in una condizione drammatica dove nel 41,6% delle famiglie è assente un computer e solo il 14,1% ha a disposizione un dispositivo per ciascun componente dell’abitazione.

La didattica a distanza non riesce a sostituirsi all’interazione in presenza, mancano direttive precise e anche dotazioni digitali, per aiutare non solo i bambini ma anche i genitori, ora più che mai coinvolti nel complicato processo di formazione degli alunni. Anche in questo caso i dati Istat mostrano che, per le lezioni online, l’accesso alla rete non basta: tra i minori in età scolastica (5-17 anni) il 57,0% condivide Pc e tablet con i componenti del nucleo familiare  ed oltre un quarto delle persone vive in condizioni di sovraffollamento abitativo; inoltre nel 2019, tra gli adolescenti di 14-17 anni che hanno usato internet negli ultimi 3 mesi, due su 3 hanno competenze digitali basse o di base mentre meno di tre su 10 (pari a circa 700 mila ragazzi) si attestano su livelli alti.

Anche alcuni dipendenti contestano il lavoro agile, diventato sinonimo di incessante reperibilità, con orari che esulano dal normale contesto lavorativo.

Delineare una strategia di ripresa, a queste condizioni, con l’Italia che occupa solo la 24esima posizione su 28 stati membri dell’UE nell’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società della Commissione Europea, è impossibile ed irrealizzabile.

Il Coronavirus ha scoperchiato il vaso di Pandora, occorre una risoluzione immediata da parte degli organi competenti, per usufruire delle possibilità offerte dallo smart working.

 

Anna Pavarese

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