Sono trascorsi 30 anni anni dalla pubblicazione del documento “Per amore del mio popolo” che don Peppe Diana e i confratelli sacerdoti della Forania di Casal di Principe(otto parroci, mandati come agnelli in mezzo ai lupi) vollero consegnare alla popolazione e alle persone di buona volontà. Era il 25 dicembre, Natale del 1991. Trentanni anni dopo ancora non si deve tacere, in nome di un popolo che vuole risorgere, dalla tirannia della camorra, e di ogni tipo di violenza. Ricordare quel documento è un dovere civile e morale, religioso e profetico, altro che atto ripetitivo.
E’ bene che si rinnovi questo appello perchè la terra nostra sta sempre in prima pagina per morti di camorra, per vittime innocenti di camorra. E’ importante perchè tutti, e soprattutto i giovani, hanno bisogno di ricordare don Peppe e quello che fecero con semplicità ma con determinazione lui e suoi confratelli sacerdoti.
Ed ancora la sua diocesi oggi in un documento di poco tempo fa confessa qualche omissione.
“Forse non ci rendemmo subito conto della straordinaria vitalità che avevano quelle parole, della profezia che conservavano in sé, dell’orizzonte nel quale si sarebbero poi collocate. Fu l’assassinio di don Giuseppe Diana, avvenuto il 19 marzo 1994, a rendere quel documento veramente unico, uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo, tra la salvezza e la prigionia camorristica, tra il deserto e la terra promessa, fu quella morte atroce a prefigurare cioè una nuova terra e un nuovo cielo per questi territori così fortemente martoriati dalla violenza e dalla sopraffazione”.
Questi sacerdoti, mandati come agnelli in mezzo ai lupi, in luoghi dove c’erano corrotti e collusi con la camorra anche tra uomini dello Stato, hanno seminato tanti fiori che portano avanti quelle idee e quella battaglia, quel grido e quel bisogno di liberazione. In quel documento don Peppe non si limita a denunciare il male e le omissioni, ma mette in luce le radici e le possibili vie di guarigione con una forza e con una sorprendente lucidità che ritroviamo oggi nelle parole di papa Francesco.
Un messaggio che deve diventare monito, una meditazione che deve diventare azione, a sporcarsi le mani, a non guardare dall’altra parte. “Bisogna risalire sui tetti per riannunciare parole di vita”, amava ripetere don Peppe. E allora trasformiamo il dolore per le morti innocenti in speranza ed impegno.
A distanza di 30 anni, quelle preoccupazioni ,ci interpellano profondamente, anche se le guardiamo con occhi diversi, con lo sguardo di chi vigila, vede l’ingiustizia e la denuncia,con la ragione di chi ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo che avanza, che fa della giustizia la via prioritaria da seguire per giungere alla libertà.
Ricordare quel documento unico non è un atto ripetitivo, ma è fare memoria, per narrare, da una generazione all’altra,il senso di una storia fatta di soprusi e violenze,ma anche di resistenza e di liberazione. Ricordare don Peppe significa ricordarlo nella sua profonda umanità. Girava per il paese in jeans e non in tonaca come era accaduto sino ad allora ai preti che si portavano addosso un’autorità cupa come l’abito talare.
Fumava anche il sigaro ogni tanto in pubblico, altrove poteva sembrare un gesto innocuo, un prete sorridente, umano. Calunniato e dimenticato, oggi avrebbe perdonato mandante ed esecutore della sua morte.
In questi giorni ricordano tutti il suo documento, dai suoi boy scout, ai confratelli,ai colleghi della Facoltà teologica di san Luigi e di Capodimonte,dagli operatori di pace ai cappellani penitenziari, dai giovani di Libera ai cospiratori della speranza. facciamo memoria del suo impegno civile, delle sue denunce e delle sue critiche. Lui produce conversione, amore e solidarietà. Peccato che la Chiesa non lo voglia “Beato”, rispetto ad altri preti morti per mafia!
Sapendo anche che le crisi per le liberazioni che non portano i frutti che vorremmo sono tipiche di ogni avventura umana vera.
Però, noi credenti, sappiamo che il fiore della salvezza sboccia nel letame del male.