La rissa in aula, al Senato, durante la discussione dello Ius soli è una delle pagini più tristi per la nostra legislatura. Quei cartelloni da stadio,gli spintoni e le urla contro la legge sulla cittadinanza di “italiani stranieri”sono andati in “mondovisione.” Sull’approvazione di questa legge la Chiesa continua a chiedere alla politica responsabilità e coerenza. Approvare questa legge significa dare cittadinanza all’Italia del presente e del futuro, all’Italia come già è e come sarà. L’Italia si trova a legiferare accertando che l’emigrazione non è un fenomeno transitorio ma durevole. L’immigrato ha molto nelle nostre società, molte tutele e molti diritti, ma ha poco quanto a benefici del tessuto comunitario suppletivo, integrativo, amministrativo. Ne sono uscite solitudini,angosce,egoismi. Ci ritroviamo o con ghetti di impermeabile inclusione o fortissime resistenze all’altro,come se l’immigrato ci togliesse diritti sociali e individulai,ci togliesse lavoro e dignità.
Ecco il rischio di diventare un Paese chiuso. La riforma farebbe diventare cittadino chi di fatto già lo è da decenni. Sembra sproporzionato negare a priori a persone che già sono in Italia ma che soprattutto condividono con i propri coetanei questa bellezza di trovarsi insieme,di studiare insieme,di vivere insieme, negare una identità di uguaglianza e di omogeneità con gli altri. Spesso portano la memoria e la pratica di mestieri preziosi da noi abbandonati e per altro indispensabili.
Ci vuole una consapevolezza più matura e dinamica.L’umanità è una, si muove per bisogno e si integra per reciproca cooperazione.
Mi pare evidente che non approvare questa legge significherebbe invece negare non solo un diritto, ma la realtà del nostro Paese. Una scelta ideologica e di mero calcolo elettorale.Non possiamo essere solo una immensa sala parto!
E anche l’Europa farebbe bene a guardare di più al proprio meridione,immenso porto dell’umanità a venire. E non dimenchiamoci che dal 2005 al 2015,in dieci anni,4milioni e 800mila italiani sono emigrati all’estero,il 44% di chi ha lasciato lo ha fatto per motivi di studio,ma il restante sono intere famiglie che emigrano e cercano lavoro,invocano diritti e tutele.
Il ritorno,qui in Italia,a pratiche di comunità più larga può essere solo utile,è un esempio virtuoso della politica di inclusione.