Negli ultimi mesi, sono accaduti in Italia eventi delittuosi che, a vario titolo, hanno visto implicati giovani, se non addirittura ragazzi poco più che bambini, quali autori di reato, abbiamo assistito a comportamenti antisociali di singoli, ma anche di piccole bande di adolescenti, che hanno suscitato un diffuso allarme sociale e l’attenzione di coloro che studiano i fenomeni della devianza giovanile e della psicologia dello sviluppo. Le analisi sociologiche si sono accavallate, le diagnosi psicologiche sono state elargite attraverso numerosi e logorroici talk show televisivi. Giornalisti e politici, espressione di un sentire comune diffuso, cavalcando l’onda dell’emotività sociale, hanno processato e condannato la scuola e la famiglia senza appello e senza dare spazio a un pensiero costruttivo che offrisse una più attenta riflessione sul che cosa fare. Anzi, il recente disegno di legge governativo, contenente disposizioni urgenti in materia di sicurezza sociale, riconfigurando la posizione dell’adulto autore di reato in collaborazione con minori, sembra inasprire anche la posizione giuridica del minore, con una risposta di tipo riduzionistico, a quella che, invece, si palesa come una crisi più generale della società occidentale dalle ricadute negative sulle più giovani generazioni.
Le sfide
Nei momenti più critici delle transizioni epocali, ovvero direi sempre, occorre porsi il problema delle sfide educative poste dalle nuove situazioni alle quali la società degli adulti non può solo offrire una risposta del qui e dell’oggi nella più completa assenza di una tensione progettuale, ispiratrice di idealità e di possibilità concrete di spazi di crescita umana non esclusivamente legate al Pil. Chi corre affannosamente inseguendo l’araba fenice del successo mediatico, o del guadagno facile, o del prestigio coltivando la sola immagine di sé, deprivata di un terreno di cultura esperienziale e sapienziale, certamente non si rende conto, o non vuole rendersi conto, che sta giocando d’azzardo ampiamente sostenuto da coloro che di quel gioco sono i maggiori beneficiari, a danno proprio delle più giovani generazioni. Tornare, invece, a proporre l’azione dell’educare – anche se per i più appare un’azione obsoleta – come tensione progettuale, significa restituire la possibilità di scegliere, direzionare, di costruire un più ampio orizzonte di vita che esprima nell’oggi un impegno creativo per il futuro, senza tralasciare di dare risposte alle attese presenti, che pure non possono mancare. D’altra parte, ogni buon genitore, educatore, insegnante sa che senza la percezione del futuro non è possibile alcun progetto; che si svilisce l’atteggiamento di attesa e la capacità di confrontarsi; che senza tensione a costruire il proprio sogno individuale in una cornice di condivisione, la vita si disanima e si entra in una quotidianità priva di senso, in un minimalismo i cui esiti sono da tempo sotto i nostri occhi.
Una responsabilità a più livelli
La necessità di tornare ad un corretto impegno educativo, nonostante la tentazione di abdicare, non è l’ennesima utopia pedagogica al cui giogo sottrarsi o il tentativo malcelato di una restaurazione resa sotto le forme del nuovo che avanza, bensì la risposta – attesa dalle giovani generazioni, ma inevasa dal mondo degli adulti – alla domanda di senso da coltivare attraverso il confronto e in cui cimentarsi, di impegni a cui attendere che siano accrescitivi delle istanze di umanità e non sottrattivi di esse. Significa anche assumere la responsabilità personale e sociale del compito educativo che attiene al mondo degli adulti e, nello stesso tempo, prendere posizione e contrastare l’effimero che viene continuamente proposto come valore. Quella dell’educatore autorevole, però, è una specie rara, anche se moltissimi sono i laureati in scienze dell’educazione, e quella dell’educazione è una pratica ormai desueta. A torto o a ragione, molti temono la deriva ideologica retrostante ai discorsieducativi, altri paventano lo scarso rigore scientifico delle teorizzazioni e delle pratiche, dimenticando che la crescita personale non è mai uno sviluppo lineare prevedibile e che ciascuno recita sempre a soggetto, per Il percorso da seguire deve attivare una comunicazione concreta e negoziale con i giovani nella quale ogni parola deve avere un significato condivisibile ché il copione della vita non è mai dato prima; altri, infine, si accontentano di un educatore scarsamente specializzato perché vedono nell’educazione una mera pratica socio-assistenziale. In tutti i casi, si sentono cicalecci che sanno facilmente affondare il coltello nella piaga incolpando famiglia e scuola della loro incapacità, dopo averle svuotate della loro funzione educativa. L’educazione esige tempi e spazi adeguati, ritmi e simboli iniziatori propri, parole (poche) e azioni coerenti (molte) che, come in una danza, invitano a disegnare, ora lentamente ora incalzando, nuovi scenari e pratiche di vita dalla cui intima esperienza viene fuori gradualmente una nuova rappresentazione di sé accettabile, rassicurante nonostante i tanti limiti che ognuno porta dentro e che riscontra anche fuori di sé.
È per questo che ogni educatore autorevole sa che in una società satura di ingannevoli obiettivi, immagini e parole vuote che si rincorrono all’infinito, il percorso educativo deve attivare una comunicazione concreta e negoziale con i giovani all’interno della quale ogni parola deve avere un significato ricostruito condivisibile; che i giovani necessitano di aprirsi alla vita senza corse affannose e preoccupazioni che non attengono al loro mondo, ma a quello di certi adulti che, purtroppo, guardano alla vita solo come a un capitale da sfruttare e alle giovani generazioni come al serbatoio a cui precocemente attingere, forzando i processi di maturazione. Così, però, i ritmi dell’apprendimento non sono più il tempo classico di misurazione della percorrenza maturativa, mentre la velocità è diventata la categoria per eccellenza; chi staziona e risiede per un qualche tempo nei cicli della crescita viene privato del suo diritto a capire, a fare la sua storia, a correggersi, mentre chi corre vorticosamente vive gli iperspazi dell’indeterminatezza tanto che risulta difficile coglierne la posizione e tutto ci. produce come un «rumore» dentro che è psichicamente molto più pericoloso dei comportamenti visibilmente conflittivi, perché implosivo, destrutturante.
Una sana relazione educativa è fatta di sguardi, parole, gesti, umori, silenzi, ma anche prove, correzioni, continue riformulazioni, e si traduce in una concreta condivisione di destino anche se ciascuno ne ricava secondo il suo proprio modo d’essere e ruolo.
Ogni educatore attraverso questa relazione esprime insieme l’atto del «prendersi cura del suo educando», ma anche il progetto emancipativi che desidera per l’altro e dell’altro, allorquando la crescita e l’autonomia di questi renderanno superflua la sua azione pedagogica e l’educando di un tempo avrà finalmente «cura di sé». In una società, però, che non ha cura di sé, il processo pedagogico le è estraneo, perché esso ha tempi e riti che mal si conciliano con le sue esigenze sicché ogni minore vive tappe forzate e non è considerato per quello che è cioè un soggetto in educazione.
La famiglia, la scuola, le associazioni vivono questa contraddizione, perché si alimentano di un «legame disperante» con la più ampia società che propone continuamente una relazione patologica: da un lato, a parole, essa chiede sempre più educazione, dall’altro, con le scelte economiche e politiche nega proprio il tempo e lo spazio di cui l’educazione necessita. Per questo motivo, “EDUCARE” è anche il «luogo» dove aiutare proprio i più indifesi e sovra esposti a prendere coscienza che i confini fra ci. che è sano e ci. che non lo è sono stati forse definitivamente abbattuti e che la vita esprime tutte le sue contraddizioni attraverso le forme dell’ipocrisia degli adulti. Maturare in una simile società comporta che le esperienze della vita sono consumate ma non agite, accumulate ma non elaborate consapevolmente entro matrici socio-cognitive individuali e collettive in grado di produrre significati esistenziali, affettivi, relazionali, spirituali positivi.
I margini della condivisione
Proprio per questo alle giovani generazioni è sempre più necessario offrire il tempo e lo spazio dove condividere con i soggetti educanti un linguaggio non più paradigmatico bensì narrativo perché, con sempre maggiore evidenza, essi hanno bisogno di raccontare, in modo protetto, la propria fragilità, i timori, le incertezze e disillusioni ma anche le proprie aspirazioni; uno spazio/tempo tonico, cioè, per una percorrenza individuale e collettiva che consenta la costruzione, sempre facentesi, della propria identità in un contesto sociale non sempre facilitante. Per invertire la rotta, ed evitare i soliti interventi da pannicelli caldi, occorre che una sana politica si assuma il compito di restituire ai soggetti educanti (famiglia, scuola, associazioni) il tempo della progettualità e lo spazio adeguato dell’intervento, e che sappia riconoscere la preziosa funzione sociale da essi svolta. Tutto il resto è chiacchiere e il cicaleccio da salotto serve a tutti per coprire le proprie responsabilità.
Lo spazio educativo è il luogo comunicativo positivo che dischiude al futuro a partire proprio dalla consapevolezza condivisa di un debito generazionale degli adulti verso i giovani.
Tutto questo è impedito perché indici eloquenti della difficoltà che incontra l’educazione nel mondo odierno sono gli stili di vita prevalenti. Mentre la società legale e quella delinquenziale si nutrono degli stessi «valori» (ricchezza, immagine e potere) e intrecciano costantemente le loro strategie sempre più inseparabili.
Le giovani generazioni vivono queste criticità e percepiscono che il mondo degli adulti non è un loro alleato, ma un cinico competitore.