Mai come questa volta il ruolo della sinistra in Europa è già tracciato. Con la più grande chiarezza, con la massima precisione auspicabile. La sinistra non è sempre stata, in passato, convintamente europeista: adesso lo è. Il Partito Democratico non aveva finora aderito al Partito Socialista Europeo: adesso ha aderito.
Dopo le battute d’arresto degli scorsi anni, segnate non solo dalla gravissima crisi economica e sociale, ma anche da una lunga pausa di riflessione sul futuro dell’Unione, il processo di integrazione europea sembra in procinto di ripartire: almeno questa è l’intenzione dei socialisti europei che nel recentissimo congresso tenutosi a Roma e conclusosi il primo marzo scorso hanno indicato il socialdemocratico tedesco Martin Schulz, attuale Presidente del Parlamento, come candidato designato del PSE alla guida della Commissione Europea (al posto cioè che è oggi di José Manuel Barroso). Si tratta di un’innovazione significativa, perché tenta di affermare, in via di fatto, il principio – non ancora sancito nei trattati costituzionali – per cui l’elettorato europeo non concorre col proprio voto solo alla scelta dei membri del Parlamento, ma direttamente al governo dell’Unione. «Io voglio essere il primo Presidente della Commissione – ha dichiarato Schulz – che non è il risultato di una trattativa dietro le quinte di qualche ufficio a Bruxelles, ma di un libero voto democratico».
Anche sul piano programmatico, il Partito Socialista Europeo non è affatto privo di una robusta piattaforma di idee e iniziative: i socialisti europei oppongono con decisione alle politiche di austerità finora imposte dai conservatori, basate sul ridimensionamento della sfera pubblica e la deregolamentazione del mercato del lavoro, un forte e ambizioso «piano per il lavoro», centrato, invece, su una seria politica di investimenti nei settori strategici, ad alto tasso di innovazione, capaci di rilanciare la domanda e sostenere la crescita e l’occupazione. È il primo punto del programma del PSE. Dopodiché, trovano posto molte buone idee: l’obiettivo degli Eurobond, un’incisiva riforma dei mercati finanziari, la creazione di un’agenzia di rating europea, una tassazione sovranazionale delle transazioni finanziarie, il sostegno alla green economy, la priorità alla lotta contro la disoccupazione giovanile con la più ampia dotazione di risorse al programma European Youth Guarantee, la fine del dumping sociale fra i paesi dell’Unione, l’introduzione del minimo salariale a livello europeo, la promozione dei programmi di inclusione e integrazione dell’Unione. Sono solo alcuni dei capitoli del Manifesto redatto in vista delle prossime elezioni, ma forniscono un quadro abbastanza coerente di linee programmatiche, che restituiscono alla sinistra europea un profilo chiaramente – vorrei dire: dignitosamente – progressista.
E, sul piano ideale, i «core values of social democracy» e le pari opportunità per tutti gli europei restano l’orizzonte fondamentale del socialismo democratico.
Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché al primo punto del Manifesto approvato a Roma si leggono le seguenti parole: «Noi crediamo fortemente che l’Unione Europea deve cambiare». Il Manifesto chiede il voto dei cittadini europei per cambiare l’Unione, e soprattutto per avere la forza sufficiente per farlo. E qui casca l’asino. Il ruolo della sinistra europea è definito, infatti, in termini di cambiamento, com’è giusto che sia. Il punto è che però l’assetto attuale dell’Unione non è soltanto il frutto dell’egemonia politicamente neoconservatrice ed economicamente neoliberista, che i socialisti si propongono finalmente di rovesciare. In realtà, negli scorsi due decenni almeno vi è stata una profonda complicità – altri direbbero: subalternità – del mondo socialdemocratico, socialista e laburista nei confronti della dottrina imperante: sia sul piano politico, dove si è imposto il metodo intergovernativo che ha di fatto marginalizzato.
Commissione e Parlamento, con un chiaro affievolimento della spinta democratica e partecipativa, che sul piano economico-finanziario, sul quale l’ortodossia rigorista, il mito dei «compiti a casa», della disciplina di bilancio, del rispetto dei parametri di Maastricht ha prevalso su ogni altra ragione, a livello europeo come a livello nazionale, a destra come, ahimè, a sinistra. Oggi, il PSE scrive che «crede fortemente» nella necessità di cambiare l’Unione Europea. Ma lo ha sempre creduto, oppure ha creduto, invece, che bisognasse procedere senz’altro in direzione della moneta unica, così come dell’allargamento a Est dell’Unione, rinviando sine die quei cambiamenti che oggi reputa, invece, necessari, persino urgenti?
Questa domanda non ha però il significato di una polemica, quanto piuttosto quello di una preoccupazione. Bisogna, è vero, credere fortemente che l’Europa debba cambiare per avere la forza necessaria a cambiarla. Ma negli ultimi cinque anni, nel tempo cioè che ci separa dalle scorse elezioni per il Parlamento europeo, il vento antieuropeista è cresciuto fortemente: la disillusione, il disagio, la disaffezione costituiscono oggi il tratto più marcato delle opinioni pubbliche nazionali. E sebbene i venti che soffiano alle porte dell’Unione – con la crisi ucraina – non mancano di ricordarci quanto prezioso sia il bene della pace fra le nazioni europee che l’Unione ha saputo assicurare nei suoi primi cinquant’anni di vita, resta il fatto che la crisi economica e sociale più grave dagli anni Trenta del Novecento ad oggi non smette di alimentare la diffidenza nei confronti dell’Euro e, quel che è più grave, del progetto europeo. L’investimento politico che il PSE intende compiere nelle prossime elezioni, augurandosi che siano in molti a crederci e quindi a condividerlo, ha un chiaro obiettivo: battere in breccia l’antieuropeismo, i populismi, i nazionalismi, tutte le forze e i movimenti che spingono, volens nolens, nel senso della disintegrazione della casa comune europea. È quello la frontiera su cui i socialisti e democratici europei intendono attestarsi. Ma c’è il rischio che quella frontiera si risolva in una striscia sempre più sottile, sempre meno popolare, e sempre meno adeguata alla sfida lanciata, oggi, in Europa. C’è il rischio che, invece, di essere la punta più avanzata delle aspirazioni europee si risolva in una scomoda posizione di mezzo fra, da un lato, i populismi che dilagano nel corpo sempre più ferito delle società europea è, dall’altro, un’élite tecnocratica, sovranazionale, molto sensibile alle necessità finanziare dei mercatie poco attenta ai bisogni reali delle popolazioni.
Se questa tenaglia dovesse chiudersi, se le due ganasce della tecnocrazia e del populismo dovessero serrarsi, ben poco terreno rimarrebbe alla sinistra per condurre la sua battaglia.
Mai come questa volta il ruolo della sinistra è già tracciato. E mai come questa volta è tanto incerto il suo futuro.