La collaborazione con la giustizia “certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente” e non è irragionevole presumere che l’ergastolano non collaborante mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza. Tuttavia, l’incompatibilità con la Costituzione si manifesta nel carattere assoluto di questa presunzione poiché, allo stato, la collaborazione con la giustizia è l’unica strada a disposizione dell’ergastolano ostativo per accedere al procedimento che potrebbe portarlo alla liberazione condizionale. «La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali».
È quanto si legge nella motivazione dell’ordinanza n. 97 (redattore Nicolò Zanon) depositata oggi (e anticipata con il comunicato del 15 aprile scorso), con cui la Corte costituzionale ha stabilito che spetta, però, al Parlamento, in prima battuta, modificare questo aspetto della disciplina relativa al cd. “ergastolo ostativo”. Un intervento meramente “demolitorio” della Corte, infatti, potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. Appartiene invece alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte «potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione».
Perciò la Corte ha ritenuto necessario rinviare il giudizio e fissare una nuova discussione alla data del 10 maggio 2022, così da garantire al legislatore il tempo necessario per affrontare la materia.
Le norme censurate dalla Cassazione e portate all’esame della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborano utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della cd. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà.
Possono invece accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia.
L’ordinanza della Consulta spiega, innanzitutto, che, in base alla costante giurisprudenza costituzionale, è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione; se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Costituzione).
La vigente disciplina “ostativa” mette però in tensione questo principio.
Da una parte eleva l’utile collaborazione con la giustizia a presupposto indefettibile per l’accesso alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico dell’ergastolano non collaborante, una presunzione assoluta di perdurante pericolosità. Assoluta appunto perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, e che non consente in radice l’accesso a nessun beneficio.
La Corte ha spiegato che questa presunzione non è, in sé stessa, in contrasto con la Costituzione. Infatti, «l’appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo». È quindi «ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, come quella che generalmente viene espressa dalla collaborazione con la giustizia».
L’incompatibilità con la Costituzione deriva dal carattere assoluto della presunzione, che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione dell’ergastolano per accedere alla valutazione della magistratura di sorveglianza da cui dipende la sua restituzione alla libertà.
Tra l’altro, può essere dubbio che la collaborazione sia frutto di una scelta sempre libera. Non sono in discussione «il rilievo e l’utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale», ma l’ordinanza sottolinea che l’attuale disciplina prefigura una sorta di “scambio” tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Per l’ergastolano ostativo che aspira alla libertà condizionale, questo scambio può assumere una portata drammatica allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine. «In casi limite – scrive la Corte – può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli».
Allo stato attuale della legislazione, la Corte ha comunque ritenuto che un proprio intervento meramente “demolitorio” potrebbe comportare effetti disarmonici sulla complessiva disciplina vigente, compromettendo «le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa».
Nel ribadire, come ricordato, che l’intervento di modifica di questi essenziali aspetti deve essere, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa, la Corte ha concluso che «esigenze di collaborazione istituzionale» impongono di disporre il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame, alla data del 10 maggio 2022, dando così al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia.
Roma, 11 maggio 2021
Dall’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale