Officina delle idee

ERICA GIGANTE,CRIMINOLOGA.” VI RACCONTO DELL’AFFETTIVITA’ E DEI LEGAMI DELL’ANIMA DELLE DETENUTE CAMPANE.”

di Erica Gigante

L’ impotenza di chi abita il carcere, soprattutto se ad essa si accompagna un momento disperato e drammatico come quello di sentirsi lontano dai propri affetti, può essere un passo fondamentale per chi, al contempo, la trasforma in un valido motivo di riscatto!

Fiore all’occhiello è stato proprio il progetto sulla genitorialità, a cui, io stessa come criminologa, ho partecipato, promosso dall’Associazione “ Città della Gioia” che, assieme al Garante dei detenuti della Regione Campania, ha dato l’opportunità a tre Istituti penitenziari, sezione femminile di Bellizzi Irpino, Pozzuoli e Salerno, di valorizzare il concetto di genitorialità nel suo significato più profondo: crescere come persona in qualità di genitore, poter migliorare le relazioni con i propri figli, accettare una situazione familiare particolare, riconoscere l’affettività come diritto della persona detenuta, sono stati i principi per i quali noi tutti abbiamo creduto e combattutto.

In tal senso, ci siamo adoperati a dare alle detenute gli strumenti necessari per attenuare, almeno in parte, l’impatto con la vita detentiva. E’ stata l’occasione per abbracciare le loro debolezze, per ascoltare il loro cuore, per guardare il loro volto malinconico e lontano dalla speranza di chi, da quel volto, ne vorrebbe trarre un pò di gioia e di chi, in realtà, vorrebbe essere ancora mamma, figlia, sorella, compagna.

Dopo una fase preliminare di conoscenza, si è passati ad una fase operativa che ha permesso di avvicinarci al tema della genitorialità.

La proiezione di film, cortometraggi, la lettura di libri, di testi di canzoni, iniziative teatrali, hanno permesso alle detenute di trovare il modo di affrontare domande riguardanti la realtà complessa in cui vivono ovvero “chi siamo”? “Cosa siamo diventate”?, “Dove andremo a finire”? “Ma soprattutto perchè, da detenuta, non riesco a trovare il modo più adatto per spiegare il mio ruolo di madre o figlia”?

A tale proposito mi sono chiesta, in che modo, il carcere devasta le relazioni innescando sensi di colpa, turbinio di emozioni contrastanti, assenza di ruoli. Ma soprattutto qual è la strada più idonea da mettere a disposizione di chi vive un momento delicato come la detenzione.

In linea teorica, sebbene l’ordinamento penitenziario tuteli l’affettività e i rapporti familiari, tuttavia nelle pratica, non è di facile attuazione: Le relazioni vengono vissute quasi in senso negativo come mancanza, perdita, dove niente dipende più da chi è carcerato ma da chi, al contrario, rappresenta un’autorità onnipotente e, forse, quasi invisibile;

Molto spesso sia gli uomini che le donne, se non hanno commesso reati in famiglia, vengono privati della possibilità di mantenere un legame con i figli. Se pensiamo agli stessi familiari che non li portano a colloquio solo perchè il proprio papà o la propria mamma sono in carcere fingendo, casomai, che siano lontano per lavoro.

Eppure non dimentichiamo che, anche se sono persone recluse, mantengono il diritto alla genitorialità e all’affettività. Ed è proprio da questa complessità di relazioni, aggravate dalla stessa detenzione, che il progetto ha sostenuto e favorito tale diritto, un diritto che, nel caso di specie, ha subito conseguenze devastanti e sofferte soprattutto per quelle detenute che non vedono i propri figli da mesi o addirittura anni.

E’ il caso di R. che, al suo grido disperato di voler vedere e riabbracciare la sua bambina di 7 anni che si trova in casa famiglia, si è cercato di dare supporto e sostegno al suo ruolo di madre; o il caso di detenute dove l’essere madre si manifestava nel mostrare foto dei propri bambini o nel considerare il figlio come un essere bisognoso di cure e, in quanto tale, affidato ai nonni, sorelle o ai papà se, questi ultimi non erano, a loro volta, rinchiusi in carcere.

O il caso di A. che come figlia ha messo a nudo, senza vergogna ma con coraggio le sue emozioni, quelle che, con le parole, sono diventate in una lettera un esempio di vita non solo per chi è in carcere, ma anche uno spunto di riflessione per chi, quel contesto, non l’ha mai vissuto.

A tale proposito ho voluto riportarla qui con grande orgoglio!

Qui nessuno si conosce, ma la strada, le storie sono sempre le stesse, nessuno è più lontano, niente è impossibile, niente e mai nessuno ci fermerà…

La strada è la stessa, le stesse illusioni, le stesse emozioni, le stesse occasioni, nessuno è diverso, qui siamo tutti uguali.

C’è chi ha troppo e chi non ha nulla, chi ha una stella, chi un cielo nero, chi può parlare, chi deve solo ascoltare, chi ha una strada e chi cammina sui sassi, c’è chi è bianco e nero, c’è chi si trasforma come me per esigenza, c’è chi cerca sempre la speranza, qui nessuno si conosce, ma la musica, i fatti, le storie, la sofferenza, il patimento sono gli stessi.

Non è per niente facile restare in bilico e nè è facile sognare… nessuno è diverso, siamo tutti uguali, non è per niente facile restare stabile, nessuno è distinto siamo tutti uguali, identici e niente e nessuno ci fermerà.

Non è per niente facile restare in equilibrio, nessuno è più diverso, siamo tutti identici, uniformi, coerenti, nemmeno più l’Africa è lontana, e il vuoto di chi è solo si riempirà…

Questo posto così oscuro per chi non lo conosce, mette i brividi… tu carcere pensi che ti sia tutto concesso, ma ti sbagli, non capisci che sai solo uccidere. Tu carceriere del mio corpo, ma mai e quando dico mai, mai del mio io, tu qui ci rimarrai a vita mentre noi siamo solo di passaggio”

LIBERI NELL’ANIMA

Quanto, quindi, è necessario favorire i legami all’interno di un carcere soprattutto se, gli stessi, costituiscono un fattore fondamentale nella vita del detenuto.

Il duro regime carcerario, la sottocultura carceraria, la difficoltà per il detenuto di sviluppare la propria autonomia sempre in contrasto con l’ambiente carcerario, sono fattori che, di certo, non favoriscono l’attuazione concreta di programmi rivolti, non solo ai bisogni dei detenuti ma anche a tutte quelle persone coinvolte, come ad esempio la famiglia.

Proprio per questo, è necessario una giustizia che, nella pratica, metta in atto una serie di interventi utili al cambiamento della vita di ognuno di loro, un cambiamento finalizzato alla riflessione della propria dimensione genitoriale attraverso maggiori incontri individuali con i propri figli, attraverso incontri volti alla formazione personale sia del detenuto/genitore che del proprio figlio, attraverso maggiori contatti con il mondo esterno. E’ necessario, altresì, non impedire la comunicazione e la relazione con il genitore recluso che potrebbe comunque sviluppare, attraverso adeguati interventi, una buona capacità genitoriale, senza  che il carcere diventi così un luogo devastante non solo per chi è dentro ma anche per chi è fuori innescando sentimenti di abbandono per chi è figlio e sentimenti di rabbia e colpevolezza per chi è detenuto.

Ecco perchè valorizzare i legami personali all’interno del carcere, attribuisce valore al percorso di recupero, un percorso fondamentale per chi vuole reinserirsi in modo responsabile nella società.

Non dimentichiamo gli artt. 29 e 31 della Costituzione, che tutelano i rapporti parentali e le relazioni affettive salvaguardando i rapporti familiari e i doveri del genitore, così come l’art. 28 dell’Ordinamento Penitenziario secondo cui “ particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie”.

Dalla mia esperienza come criminologa, concludo nel considerare che, ogni progetto in carcere ha una sua utilità nei confronti non solo di chi crede nel recupero, nella reintegrazione sociale e nella prevenzione della recidiva, ma anche di chi si impegna a creare un ambiente che possa accogliere adeguatamente la vita intramuraria di ogni detenuto preservando soprattutto il mantenimento delle relazioni familiari.

 

ERICA GIGANTE, criminologa

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