Quel Fujtevenne del maestro Eduardo risuona ancora in una città che, nelle notti del weekend, oltre ai botti delle champagne sbocciate nei baretti, sente quelli delle pistole che sparano colpi mortali. Dal centro alla periferia. Il mare tocca Napoli e il cielo incanta coi suggestivi colori una città che, a venti metri dalla bellezza paesaggistica invidiata in tutto il mondo, riesce a riservare teatri di guerra dove non vince il più forte ma, molto più semplicemente, perdono tutti. I bambini, i genitori, gli anziani, le forze dell’ordine, lo Stato, la scuola. Tutti, nessuno escluso.
I fatti di Santa Lucia e del Vecchio Pellegrini rappresentano, in ordine di tempo, solamente l’ultimo episodio, tra i più feroci e gravi, avvenuti negli ultimi anni. Addio alla vecchia camorra, quella organizzata in codici d’onore, fatta di uomini adulti disposti in una scala gerarchica dove il “rispetto” passava anzitutto per una delineazione territoriale ben precisa. Guai a commettere una rapina, uno scippo o un atto criminoso in casa d’altri. Oggi tutto è cambiato, tutto si è invertito. In un melting pot di paranze e motorini dove, con immane spietatezza, non conta la divisione territoriale o il “qui comanda lui” ma solo e soltanto quella voglia sfrenata di accaparrarsi un potere effimero che dura il tempo di una notte: costi quel che costi. Ed allora ecco che le pistole giocattolo diventano kalashnikov o, per dirla come quel giovane di Airola nel docufilm di Santoro “o’ Kalash”; i motorini si trasformano in carrarmato dell’intelligence più stupido al mondo; i bambini protagonisti della parte del guappo e del malamente, dove il buono non trionfa mai.
Nel film l’Oro di Napoli del 1954, diretto da Vittorio De Sica, un episodio dal titolo “Il funeralino” descrive una immagine che pare essere, appena 66 anni dopo, più attuale che mai. Una donna, un madre sola e disperata (interpretata da Teresa De Vita) piange. Dinanzi la carrozza bianca che trasporta la piccola bara del figlio morto, presumibilmente, a 10 anni e dietro una sguarnita folla di persone che segue il corteo funebre che si snoda sul lungomare. In fila anche la classe del piccolo defunto, in ordine, col grembiule, segue in silenzio l’andare lento della processione. E, come era usanza dell’epoca, la madre estrae dei confetti bianchi che, come petali, lancia a destra e sinistra al passaggio della carrozza del figlio morto. Allora ecco che tutto s’interrompe. Quel silenzio rotto solamente dagli zoccoli dei cavalli cede il posto al disordine degli scugnizzi che hanno fame e che fanno di tutto per accaparrarsi i confetti, coinvolgendo anche i bambini “perbene”, quelli in fila. Al punto tale che la maestra grida: “Di Costanzo! In fila”. La giovane madre piange, riconoscendo nell’esuberanza di quei piccoli la stessa del figlio.
Quella scena è la stessa di oggi. Anche noi, in una città bellissima come Napoli, molto spesso, ci mettiamo dietro ad una bara per piangere un morto giovane. Che quei piccoli trasgrediscano la fila non è certamente colpa loro. E’ l’età, la giovinezza, l’immaturità, l’ingordigia a farli muovere dal corteo silenzioso. La colpa resta solo nostra. Di una società che non è in grado di offrire strumenti tali da consentire ai piccoli di comprendere la sofferenza di quando si tace e quando si parla.
E, in quella bara, insieme ad un bambino quindicenne, c’è anche ognuno di noi.