Nelle ore convulse, stravolte, struggenti del giorno successivo alla morte di Maradona, mentre sotto gli occhi di chiunque al mondo scorrevano le immagini televisive della bara del Pibe de Oro, un particolare silenzioso eppure emotivamente assordante passava quasi inosservato mentre ci si approcciava con dolore e rispetto all’ultimo saluto a Diego. Al centro di ogni inquadratura, parte integrante di ogni scena o ripresa, immobile e protagonista, c’era il feretro del Pelusa abbracciato e avvolto dalle anime del Boca Juniors e della nazionale argentina, salutato dal fiume umano raccolto e infinito di Buenos Aires: l’azul y oro xeneize, tifato fin da bambino, e l’albiceleste della sua Argentina, dei due sogni realizzati di giocare un mondiale e di vincerlo. I colori di una vita, di una carriera, di una leggenda, ma non il colore azzurro di Napoli. Niente. Per ore. Nulla che ricordasse in quel momento, davanti al mondo intero, la lunga parabola di D10S all’ombra del Vesuvio, il suo avvento, la sua rivelazione, il suo paradiso e il suo inferno insieme, il luogo dove più di ogni altro nel mondo il suo piede sinistro e la sua anima semplice e rivoluzionaria assunsero a sacralità assoluta, inviolabile, dogma profano come mai prima e come mai sarebbe stato poi.
Da Morales a Maradona fino a Carlo e quella maglia del Napoli
“La mia vita è abitata da Maradona. È rincorsa, intrecciata a Diego”. È la voce avvolgente e indimenticabile di Victor Hugo Morales, il “relator” maestro, l’epico cantore del barrilete cosmico, l’affabulatore radiofonico più famoso del mondo che così si descrive a Federico Buffa in uno dei tanti, eccezionali momenti di giornalismo, arte e cultura costruiti dal miglior narratore sportivo italiano della nostra epoca. Una frase che contiene un’esistenza intera e che si presta anche a raccontare un intreccio più piccolo, meno celebre ma altrettanto straordinario: quello che lega Carlo Ferrara, 42 anni, a Diego Armando Maradona, 60, per tutta la sua vita.
Carlo, come mai sei a Buenos Aires?
“Sono un economista ambientale e mi trovo qui da quasi un anno, dopo quattro in Colombia e otto in Cina, lavoro per un’azienda internazionale impegnata con lo stato argentino”, spiega in una videochat con la voce letteralmente ancora rotta dall’emozione, “Scusami, in due giorni ho dormito tre ore, non ho fatto altro che girare la città fino a notte e poi tornare al lavoro e di nuovo a salutarlo per l’ultima volta”.
Cosa è successo quando hai saputo? Cosa succedeva lì?
“Ero in una riunione, mi hanno detto poi che sono sbiancato quando un collega mi ha riferito la notizia. Ricordo di aver terminato l’incontro e di essere uscito dal lavoro alle cinque, dopo altre riunioni in cui tutti eravamo sotto shock e abbiamo chiuso il prima possibile, ho preso una bicicletta e da solo pedalavo e piangevo. Attorno silenzio spettrale, pochissime macchine, solo il suono dai palazzi delle televisioni che trasmettevano in diretta. Sono andato allo stadio dell’Argentinos Juniors, quando arrivo ci sono piccoli capannelli di persone, c’erano ancora silenzi, ogni tanto un coro per Diego, incredulità, stupore nelle facce con gli occhi gonfi. Mi sono commosso, c’era un ragazzo con la maglia del Napoli davanti a un murales di Diego a piangere silenziosamente. Sai, qua se sei italiano ti chiamano “tano“, da napole-tano, perché dall’Italia emigravano a migliaia. Gli argentini ci invidiano, ci rispettano, sono affezionati alla maglia del Napoli, abbiamo vissuto più noi Diego di loro…”
E poi?
“Taglio tutta la città, vado da lì fino alla Bombonera. Nei quartieri la gente iniziava a riunirsi, i cartelloni luminosi che danno le indicazioni stradali avevano tutti la stessa scritta: Gracias Diego. Quando arrivo, trovo un clima molto diverso, sempre più gente, il coro più forte era “El que no salta es un ingles”, quando parte il “Diego, Diego” escono di nuovo le lacrime. Cercavo sempre di rispettare le distanze ma era difficile, si piangeva e ci si abbracciava, ricordo lo striscione che arriva, si srotola, “D10S esta con Dios”…Poi vado all’Obelisco e poi alla Casa Rosada dove già stanno sistemando le transenne, fino alle tre, tre e mezza di notte, vado via mentre stava per arrivare la famiglia e iniziavano ad allestire la camera ardente. Tre ore di sonno, poi al lavoro di nuovo, esco all’una per andare a salutarlo l’ultima volta. C’erano due file, quella delle persone comuni e una dedicata alle istituzioni, alle personalità sportive e a quelle straniere, in questa aspetto il mio turno e quando entro resto in un angolo a piangere, minuti, non so quanti. Alla fine lascio un fiore e la maglia del Napoli che avevo, 2015/2016, regalata dai miei amici del calciotto di Roma quando sono partito per il Sudamerica. Si vede bene dalla tv perché per fortuna viene messa lateralmente rispetto alle cose che arrivavano e che si accumulavano davanti. Tenevo tanto a quella maglietta ma era giusto che la lasciassi lì, mi dispiaceva non ci fosse una maglia del Napoli lì a ricordarlo. Poi sono uscito, ero stravolto, attorno iniziavano anche i primi disordini alla notizia che avrebbero chiuso a breve l’ingresso. Ho condiviso quanto avevo fatto sui social, mi sembrava giusto far sapere che Napoli c’era, anche lì, anche in quel momento, e da allora continuo a ricevere messaggi da tante persone che mi ringraziano per averlo fatto. Sono felice, lo meritava Diego e lo meritava Napoli. Quel gesto, quella maglia ha rappresentato tutta una generazione che è giusto che ci dovesse essere, lì, in quel momento.
Napoli, Maradona, Scudetto, ritrovarsi tra L’Avana e Pechino
Maradona ti ha accompagnato per tutta la vita, mi hai detto prima…
“Sì, i miei genitori vivevano a Milano per lavoro, ma io nasco a Napoli nel 1978 perché mia madre torna a casa per il parto. poi torniamo a viverci nell’estate del 1984, proprio quella dell’arrivo di Diego. Arriviamo insieme, e da allora sarà sempre presente nella mia vita. Sono figlio di un tifoso del Napoli, che mi portava sempre allo stadio a vedere la partita: si andava quattro, cinque ore prima, era una festa, imparavi tante cose, era un carnevale ogni domenica. Sarò eternamente grato a mio padre per avermi fatto vivere tutto questo. Il Napoli aveva il suo posto nel mondo, aveva il giocatore più forte del mondo, da bambino pensi sia normale. E non solo il San Paolo, grazie alle amicizie costruite dalla mia famiglia negli anni di lavoro al nord si andava anche in trasferta. Ricordo gli Juve-Napoli, i Milan-Napoli, gli Inter-Napoli, i Verona-Napoli, ricordo l’ingenuità nel chiedere a mio padre cosa significasse quello scritta a pennarello lasciataci come accoglienza in tribuna al Bentegodi “Benvenuti campioni ma lavatevi”, gli striscioni “Benvenuti in Italia”, “Lavatevi”…Diego era riscatto e rivincita per tutto il Sud”.
“Avevo 8, 9 anni quando il Napoli vinse il primo scudetto. Ricordo le lacrime di gioia di mio padre e le sue parole, “Tu ora sei bambino, pensi che tutto questo sia normale…ma non lo è, un giorno capirai”. E crescendo capii, capii quando mi chiedevo perché volesse andarsene a Marsiglia, quando iniziavo ad aprire gli occhi su quello che era Napoli, quando ci trovammo a giocare in Serie C…Ricordo quando da bambino sentii quella parola, doping, ne restai ferito, tradito, ma poi scoprii il lato umano del campione, le battaglie che portava avanti…Ricordo anche il San Paolo ad Italia-Argentina nei Mondiali 1990, lo stadio che era diviso nell’amore per la Nazionale e quella per Diego, ricordo i Napoli-Stoccarda, i Napoli-Bayern, quel Napoli-Real Madrid, il gol di Francini, il colpo di testa di Careca e Buyo che si siede sul pallone…
E dopo Napoli?
“Ho vissuto tutto Maradona dal vivo, poi lo ritrovo incredibilmente a Cuba: ero lì a preparare la tesi sulle politiche economiche ambientali cubane, sull’alternativa che metteva in discussione fino all’osso le scelte miopi del modello economico occidentale, di una crescita teoricamente infinita senza considerare lo stress e i limiti del nostro pianeta, e lui arriva proprio in quel periodo sull’isola per essere aiutato da Fidel, suo grande amico. Non mi è mai piaciuto l’assalto dei tifosi a cui doveva sottoporsi ogni giorno della sua vita, tutti addosso a volere un pezzo di Diego, ma quando era lì per cinque giorni cercai almeno di vederlo ma era isolato da tutto il resto. Poi a Pechino, alla finale delle Olimpiadi nel 2008, l’Argentina vince la medaglia d’oro con Riquelme, Mascherano, Di Maria, Aguero e Messi in campo (e Lavezzi che lo so e lui in tribuna a pochi metri da me, ora sono qui a Buenos Aires in un periodo assurdo e drammatico quando se ne va. Con lui se ne va tutta la gioia di una vita, una presenza che in un modo o nell’altro mi ha accompagnato sempre, come ha fatto con miliardi di persone”.
Cosa è stato Maradona per un bimbo, un ragazzo, un uomo napoletano?
“Il bene che mi ha fatto Diego, le emozioni, la felicità che mi ha fatto vivere, è un qualcosa che va oltre. Gli sarò grato a vita. Maradona è stato un senso di giustizia che non c’è nel mondo. Non è Pelè, non è Ronaldo, non è una bella prima pagina da copertina. Lui è della Villa e non l’ha mai lasciata. Ha unito i Davide di tutto il mondo contro i Golia, anche pagandola cara. Ci ha sempre messo la faccia, ha pagato ogni errore e ogni battaglia in prima persona. Non voleva essere un esempio eppure lo è diventato. E l’ultima lezione, quella che non ha dato, è quella della sua vita per i giovani. Lo fa morendo così giovane, sessantenne ridotto male, è l’ultimo monito, l’ultima lezione che non aveva potuto dare in vita”.