L’ultimo rapporto di ISMEA e Fondazione Qualivita sulle IG indica una crescita continua e sempre più sostenuta della cosiddetta Dop-Economy, l’ economia delle indicazioni geografiche, un
comparto che vale ora circa 17 miliardi di euro ed un export di quasi 10 miliardi. “Un patrimonio non solo economico, ma anche identitario che è passato in due decenni dal valore della tutela della tradizione all`essere percepito come un bene pubblico e una strategia di sviluppo e di benessere” come ha affermato Mauro Rosati direttore della Fondazione.
Nella Top ten dei 15 prodotti a marchio con i maggiori fatturati 2019, due le produzioni campane: la Mozzarella di bufala campana dop (quarta con 426 milioni di euro) e la Pasta di
Gragnano igp (nona con 247 milioni), quest’ultima in crescita rispetto agli anni scorsi.
E le altre campane ? Con i recenti riconoscimenti della Colatura di Alici di Cetara Dop e della Rucola della Piana del Sele Igp, la Campania ha ora 26 Indicazioni Geografiche europee nel settore Food (29 sono quelle del settore Vini), di cui 15 Dop e 11 Igp. In realtà 5 di esse sono interregionali, di cui solo due, la Mozzarella di Bufala Campana Dop e in parte il Vitellone bianco dell’ Appennino centrale igp, hanno rilevanza economica e peso numerico in Campania. Possiamo, inoltre, escludere a priori due dei marchi interregionali, Caciocavallo Silano dop (solo pochi operatori campani nel Vallo di Diano) e Oliva di Gaeta dop (nessun produttore campano iscritto), mentre un discorso diverso va fatto per il citato Vitellone bianco dell’Appennino Centrale igp che, pur essendo appannaggio soprattutto delle zootecnie da carne delle regioni centrali italiane, in Campania è presente con la filiera della carne Marchigiana. Una bella realtà produttiva che va consolidandosi intorno al marchio soprattutto nel Fortore beneventano, ma anche nel Matese e in Irpinia.
Un certo dinamismo, che si traduce anche in crescita costante seppure lenta di prodotto certificato e di adesioni al sistema di certificazione, si registra soprattutto con le filiere della
Melannurca campana igp, Nocciola di Giffoni igp, Limone Costa d’Amalfi igp, Provolone del Monaco dop, Ricotta di bufala campana dop e del Pomodorino del piennolo del Vesuvio dop.
Stabile, nei suoi piccoli numeri rispetto al potenziale produttivo, il glorioso Pomodoro San Marzano dell’ Agro sarnese-nocerino dop. Poche quantità anche per il Carciofo di Paestum igp, ma
quest’ultimo è un prodotto di nicchia e si difende bene. Poche quantità certificate, ma soprattutto poche adesioni, anche per il Fico bianco del Cilento dop, che pure avrebbe un buon potenziale
produttivo vista l’ampiezza dell’ area geografica dop.
In regressione, rispetto ai decenni scorsi e al potenziale, il Limone di Sorrento igp e la Castagna di Montella igp. Non pervenuti, o quasi, il Cipollotto nocerino dop e il Marrone di Roccadaspide igp. Per le castagne c’è comunque la giustificazione della grande crisi produttiva di quest’ultimo decennio a causa della grave emergenza fitosanitaria.
Grandi attese sono invece riposte sulle ultime IG riconosciute: il Marrone di Serino igp (in crescita costante nei primi tre anni dalla registrazione) e le new entry Colatura e Rucola di cui si è
detto. Soprattutto dalla seconda, già dal 2021, si aspettano grandi numeri di adesioni.
Sugli oli evo dop, gli unici a fare fatturato ed iscrizioni alla dop (sia pure con percentuali rispetto ai potenziali dei vasti territori interessati ancora basse) sono Colline Salernitane e in parte il
Cilento e Terre Aurunche.
Assolutamente marginali i numeri degli altri oli dop: Penisola Sorrentina e Colline dell’Ufita Irpinia, nonostante quest’ultimo abbia potenziali enormi.
Analisi che può apparire impietosa, ma che ha cause storiche, strutturali, economiche, geografiche, sociali, che meriterebbero approfondimenti e che non si possono certo affrontare e
neppure declinare in un articolo giornalistico. Sarebbe importante ed opportuno, anzi, che si realizzasse prima o poi uno studio rigoroso e approfondito, senza sconti per nessuno, sui modesti
risultati delle dop/igp campane (con le dovute eccezioni s'intende), in questi primi 25 anni dalla istituzione del Regolamento europeo.
Un aspetto, però, può essere già posto in rilievo: la presenza o meno del Consorzio di filiera per ognuna delle IG menzionate, quale ulteriore motivo delle performance, positive o negative, sopra
riscontrate.
Delle 26 dop/igp, ma in effetti 23 se si escludono i marchi da poco riconosciuti, solo 15 hanno un Consorzio di tutela riconosciuto ed operante. Una decina dei quali svolgono anche un ruolo
attivo in termini di valorizzazione del prodotto tutelato, attraverso progetti, iniziative, eventi, e con investimenti di risorse, spesso anche ingenti, in politiche di promozione della denominazione e
del prodotto presso i consumatori.
E non a caso, le filiere che questi rappresentano sono proprio quelle dei grandi numeri e dell’alta percentuale di adesioni degli operatori (il grande e l'alta sono sempre relativi, se
pensiamo che alla Mozzarella dop aderiscono solo poco più del 50% dei caseifici e degli allevamenti bufalini).
Otto filiere dop/igp non hanno il Consorzio di tutela (cinque di esse l’hanno avuto in passato ma essi hanno poi perso il riconoscimento ministeriale per varie ragioni, in generale per lo scarso peso
partecipativo e rappresentativo).
Ciò si traduce in minore tutela sull’uso della denominazione, in minore controllo e in maggiori truffe. Ancora, senza Consorzio non c’è chi possa richiedere modifiche al disciplinare di produzione e al piano di controllo (solo il Ministero ma interviene in rari casi), non è possibile cambiare l’organismo di certificazione e le stesse attività di promozione (poche) sono affidate alle autorità o a media locali, non essendoci risorse da poter gestire. E naturalmente, viene da dire, esse sono anche le filiere produttive dove i numeri delle quantità certificate sono i più bassi in assoluto.
Si dirà che un Consorzio di tutela ha i suoi costi, che proprio la scarsità di operatori iscritti ne impedisca la nascita, che anche laddove si riesca a costituirli iniziano inimicizie e dissapori interni,
soprattutto laddove le componenti della filiera sono varie, come per i prodotti trasformati.
E così abbiamo denominazioni geografiche riconosciute da 15-20 anni che non hanno un soggetto autorevole che possa tutelare gli operatori onesti e rispettosi iscritti alle IG e che, avendo
disciplinari ormai obsoleti che impediscono di poter adottare innovazioni nelle tecniche di produzione e confezionamento, non hanno chi possa chiederne l’aggiornamento. Emblematici, per
tutti, i casi della Castagna di Montella e del Fico bianco del Cilento. Si sa, al sud lo spirito associativo non è mai stato particolarmente elevato e gli sforzi da fare, nel
mettere assieme più interessi, sono doppi o tripli che in altre realtà geografiche. Molte attese sono riposte nei giovani operatori, che la maggiore cultura e voglia di fare di cui sono dotati potrebbe
far ribaltare i luoghi comuni e lo stallo attuale.
Sempre che questi giovani imprenditori vengano messi realmente nella condizione di operare e di investire, per crescere e competere, da parte di chi in questi anni si è impegnato ad aiutarli con promesse e lusinghe. Vedremo.