“In un tempo che fa della crescente velocità, in ogni ambito della vita, il suo tratto saliente, anche gli studi non possono non risentirne. Persino i libri si fanno sempre più leggeri, quantitativamente e qualitativamente, e sono preparati in tempi sempre più ristretti: affollano gli scaffali delle librerie per poi scomparire con altrettanta rapidità, rivelando spesso di non reggere all’ usura del tempo. Insomma, una sorta di fast mental food. A questa linea di tendenza vi sono naturalmente delle eccezioni. Non molte, ma ci sono. Anche perché è necessario un dibattito a mente fredda (e lucida) su alcune tappe salienti della storia del nostro Paese”. Così, nell’ ambito delle riflessioni sulla prima (e sulla seconda) Repubblica, assume particolare rilievo il lavoro di Piero Craveri, che, dopo la biografia di Alcide De Gasperi un’ opera ancora oggi paradigmatica di attualissime riflessioni sull’ azione politica , ha di recente pubblicato L’ arte del non governo. Si tratta di una storia complessiva dell’ Italia repubblicana, dagli anni fondativi dell’ Assemblea costituente sino all’ affacciarsi di Renzi sulla scena politica. Ogni capitolo mette a fuoco, in sostanza, un decennio della vita repubblicana: il primo tratta delle origini, del momento cruciale in cui la Repubblica disegna se stessa, negli equilibri politici e nella forma di governo; il secondo va dalla metà degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta, sotto il segno di De Gasperi e della sua opera incompiuta (è un aggettivo, incompiuto, che torna spesso nelle pagine di Craveri e che sottolinea una sorta di motivo ricorrente nella storia di questo Paese difficile che è l’ Italia); il terzo riguarda gli anni Sessanta, ovvero lo snodo in cui si manifesta la criticità di fondo che mina il sistema economico e politico (e qui la parola chiave è fallimento, il fallimento del centrosinistra); il quarto capitolo affronta il decennio forse più drammatico della vita repubblicana, gli anni Settanta, partendo dal loro innesco, ovvero dal Sessantotto; e se per gli anni Settanta la parolachiave era crisi, per gli anni Ottanta la keyword è occasione mancata. Infine l’ ultimo capitolo, quello sulla seconda Repubblica e sul suo rapido declino, che è sotto i nostri occhi. La successione che ci porta a una riflessione a più ampio spettro è significativa: incompiutezza per la stagione del centrismo degasperiano; fallimento per il centrosinistra; crisi per gli anni Settanta; occasione mancata per gli anni Ottanta; rapido declino per la seconda Repubblica. L’ impressione è all’ interno di questa condivisibile analisi abbia dentro di sé molto spirito lamalfiano: uno sguardo lucido, antidemagogico, molto attento alla dimensione economica e alle sue compatibilità lamentatio. Non è certo un caso che il libro si apra con una considerazione carica di preoccupato realismo che Ezio Vanoni rivolse al congresso della Dc nel 1954, a Napoli: «E’ chiaro ad ognuno di noi diceva l’ economista che l’ Italia è ormai posta dinnanzi ad un bivio: o essa saprà continuare ed intensificare lo sforzo condotto dopo la guerra per la sua rinascita e la sua ricostruzione, o la distanza con gli altri paesi è destinata ad accrescersi e il nostro destino potrebbe essere quello di cadere in condizioni quasi coloniali, dalle quali non sapremmo più riprenderci». Ora, con l’ erosione della base industriale e la campagna acquisti delle grandi aziende italiane da parte di marchi esteri, le parole di Vanoni sembrano veramente assumere un sapore profetico. Nel complesso, c’ è il disegno consolidato di una parabola decrescente del Paese. Dopo un rapido processo di ascesa economica, già nel 196364 inizia quella parabola discendente che, attraverso crisi, fallimenti politici e occasioni mancate, porta a un lento ma inesorabile declino. Ecco: su questo aggettivo vorrei sperare che Craveri, per una volta, non avesse ragione. E che, nonostante tutte le criticità, ci siano ancora speranze per il nostro Paese e per il nostro Mezzogiorno. È un atteggiamento, e soprattutto l’ obiettivo di un’ azione non estemporanea, che dobbiamo ai nostri giovani.
LUCIO D’ALESSANDRO