A cinque anni dalla strage di Parigi, Azdyne Amimour e con Georges Salines, genitori di un attentatore e di una fan degli Eagles of Death Metal, parlano ai microfoni di “Vanity Fair”. Ecco quanto evidenziato dalla redazione “Linkabile”:
Le cose in comune: i Beatles, Bob Dylan, David Bowie, l’Egitto, il cinema, il pacifismo, Émile Zola, Parigi, tre figli a testa, di cui due di 28 anni morti al Bataclan.
Le vite messa in fila di Azdyne Amimour, 72 anni, commerciante di origini algerine, e Georges Salines, 62, intellettuale e medico, fanno una certa impressione per quanto si assomigliano. Sono due uomini troppo simili per trovarsi scaraventati dai due lati così opposti della stessa storia, divisi da una differenza feroce: Georges è il padre di Lola, uccisa il 13 novembre 2015 al Bataclan, Amimour è quello di Samy, uno dei tre terroristi che quella sera hanno trucidato Lola e altre 89 persone. Sono passati cinque anni dalla strage di Parigi dove sono morte 131 persone, ricorrenza che arriva a qualche settimana dall’attenato alla cattedrale di Notre-Dame, a Nizza e a quello vicino alla sinagoga di Vienna, un tempo infinito per queste famiglie.
Una mattina di febbraio del 2017, Amimour scrive un’email a Georges: «Vorrei conoscerti». «Che cosa vuoi?», risponde lui, incredulo. «Parlarti, mi sento anche io vittima di mio figlio».
«Quelle parole mi hanno confuso, spaventato e incuriosito», mi dice al telefono Salines, che è anche presidente dell’associazione 13Onze15 – Fraternité et Verité, che unisce i familiari e le vittime degli attentati di Parigi del 13 novembre. «In un certo senso anche lui è un superstite di quell’orrore, solo che non ci avevo mai pensato. Avevo paura di guardarlo negli occhi, ma volevo incontrarlo, magari mi avrebbe aiutato a capire di più quello che ci è successo. Da sempre credo nel dialogo e sentivo che era arrivato il mio momento di sedermi ad ascoltare».
Non tutti sono d’accordo con Salines: perché cercare di capire? Perché non tenersi il proprio dolore e permettersi di odiare? Ma Salines segue il suo istinto e il 27 febbraio del 2017, in un caffè di Place de la Bastille, a Parigi, fa un atto coraggioso e nobile: insieme a Aurélia Gilbert, una delle fondatrici dell’associazione sopravvissuta al Bataclan, incontra l’uomo che ha dato vita a Samy Amimour, il carnefice di sua figlia.
«Ero agitato, mio figlio aveva fatto a quel signore il male più grande che ci è concesso fare», mi racconta Amimour, «Avevo visto Georges parlare in tv, sentivo che si trattava di un tipo molto intelligente e sensibile, ma incontrarlo di persona è stata tutta un’altra storia. Ero lì per dimostrargli che l’adagio “tale padre, tale figlio” in questo caso non è vero».
Si stringono la mano, Amimour gli dice che è molto dispiaciuto per quello che aveva fatto Samy. Si siedono, ordinano un caffè e iniziano a raccontarsi le vite partendo dai loro ragazzi.
Lola era la più piccola di casa, aveva 28 anni, lavorava per Gründ, una casa editrice francese, ed era molto contenta perchè quell’autunno avrebbe debuttato la sua collana di libri, 404 Editions. Era una ragazza allegra, sensibile, adorava viaggiare e faceva parte di una squadra di Roller Derby, sport che si pratica sui pattini a rotelle.
Per mesi i due padri si studiano per conoscersi e riconoscere insieme quella ferita che paradossalmente li unisce così tanto. Hanno tante passioni in comune e diventano amici. Si scrivono email, si vedono, si parlano al telefono e poi riportano tutto il loro viaggio in un libro, Il nous reste le mots, Non ci restano che le parole, pubblicato da Robert Laffront. «Abbiamo solo quelle», dice Salines, «sono quotidianamente accusato sui social network di essere un ingenuo, un promotore del politicamente corretto, un islamista di sinistra. So che il gesto che ho fatto non è condiviso da tutti, ma per me è stata un’occasione per mostrare al mondo che il dialogo ci salva e, se non vogliamo più che succedano certe cose, dobbiamo sederci e parlare».
Ogni volta che accade un evento tragico, una delle prime domande che ci facciamo è: «Dov’eri e cosa stavi facendo in quel momento?»
Inizia Salines: «Era venerdì 13, ma io non sono superstizioso. Avevo visto Lola in pausa pranzo, in piscina. Ci siamo scambiati delle banalità. Quando pensi che ti rivedrai il giorno dopo, non dici le cose che contano. Quella sera non sapevo fosse al Bataclan, ci è andata all’ultimo perché un amico aveva un biglietto in più. Dopo cena mi sono messo a leggere, come al solito. Stavamo dormendo quando verso l’una ha squillato il telefono, era mio figlio più grande, Clément. Ha risposto mia moglie Emmanuelle. Quando ha messo giù mi ha preso le mani tra le sue e ha detto solo poche parole: attacchi terroristici a Parigi, molti morti al Bataclan, Lola è lì, non risponde al cellulare».
Amimour invece quella sera è davanti alla televisione: «Non sentivo Samy già da diversi mesi, pensavo fosse ancora in Siria. Io ero a Liegi, in Belgio, nel piccolo appartamento dietro al mio negozio di abbigliamento. Ho chiuso presto per vedere la partita Francia-Germania, allo Stade de France, sono un tifoso. Ricordo di aver pensato che mi sarebbe tanto piaciuto che mio figlio fosse al mio fianco. Quando ho visto il presidente Hollande lasciare lo stadio ho capito che stava succedendo qualcosa di grosso e ho seguito le notizie. Ho chiamato mia moglie per assicurarmi che nostra figlia più piccola non fosse al Bataclan. Lei no, non c’era».
Amimour non immagina che Samy faccia parte del commando dell’Isis che ha fatto irruzione nella sala concerti: «In macchina, mentre stavo tornando a Parigi, ho pensato che con lui in Siria la polizia sarebbe venuta a casa nostra per cercare informazioni, era già successo una volta».
In un primo momento Salines e la sua famiglia non vogliono pensare al peggio e si appellano alle statistiche. «Se al Bataclan c’erano 1500 persone circa, e i morti erano 90, c’erano più probabilità che Lola fosse tra i vivi. Magari nel casino aveva perso il cellulare, o era ferita. Quella notte e la mattina dopo abbiamo chiamato il numero di emergenza centinaia di volte, ma le linee erano sempre occupate». Allora scrive sui social con l’hashtag #rechercheparis, quello usato dalle famiglie che cercavano i loro cari. «La pagina social più brutta del mondo. Poi ci sono rimasti gli ospedali, ma anche lì, niente. Solo 24 ore dopo abbiamo avuto la conferma della morte di Lola, su Facebook», dice Salines. Da quel momento non riescono più a pensare a niente, a parlare, a prendere decisioni, sono in balia dell’inimmaginabile. «Ci siamo fatti guidare dalla psicologa che ci avevano assegnato. Ci ha spiegato che avremmo visto Lola da dietro un vetro e che non potevamo toccarla. Ci ha detto che la sua faccia era serena, che era rimasta molto tempo a pancia in giù sul pavimento del Bataclan. Sembrava dormire, ci ha fatto bene vederla. Da quel giorno, tutte le mattine fino al 27 novembre, la data dei funerali ufficiali, siamo andati all’ospedale ad assistere al lavaggio del suo corpo».
Amimour aveva ragione, il lunedì dopo la polizia arriva a casa sua. «Ci hanno interrogato per quattro giorni interni. Quando mi hanno detto che Samy era stato ucciso dalla polizia perché era uno dei tre attentatori del Bataclan, mi sono sentito morire ma non mi è scesa nemmeno una lacrima. Sono stato sorpreso da diversi sentimenti contrastanti: tristezza, odio, fatica, ingratitudine, collera. Io e mia moglie siamo due brave persone, cosa ci stava succedendo? Avevamo fatto tutto per lui, avremmo dato la nostra vita per lui».
Amimour e la sua famiglia possono vedere il corpo di Samy solo dopo tanti giorni dall’attentato. «Siamo entrati in una stanza dell’ospedale lontana da tutti, era lo stesso ospedale delle vittime. C’era mio figlio senza vita, l’ho salutato e gli ho dato un bacio prima che lo mettessero nella bara. Al suo funerale siamo andati solo noi della famiglia e qualche amico stretto, nessuno sa dove si trova la sua tomba, non c’è scritto il suo nome».
«Perché?» è una parola ricorrente durante le conversazioni tra Salines e Amimour. «Perché Samy lo ha fatto» se lo chiedono entrambi, Amimour ha qualche idea, ma niente è abbastanza per giustificare quella carneficina. «Lo abbiamo amato tantissimo, lo abbiamo fatto viaggiare, studiare. Io non ho avuto molto dalla vita, lui tutto. A ventiquattro anni, nel 2011, è iniziata la sua radicalizzazione, noi non eravamo musulmani praticanti, Samy ci giudicava dei pessimi musulmani. Leggeva il Corano tradotto dall’islamologo Tariq Ramadan, seguiva dei canali Youtube che inneggiavano alla jihad. Io gli dicevo che erano tutte stupidate, ma non è servito a niente. Poi si sono messi di mezzo gli incontri sbagliati finché è partito per la Siria. Samy era alla ricerca disperata di un’identità. Non si sentiva né francese, né algerino, è ha scelto il vestito dello jihadista. Peccato che fosse un’identità malata, che con l’Islam non c’entra nulla. Era il candidato perfetto per Daesh».
Nel 2014 Amimour va in Siria, vuole portare suo figlio a casa. Fa un viaggio lungo e difficile, soprattutto per un uomo della sua età. «Quando l’ho incontrato ho avuto la conferma che lo avevamo perso. Sembrava uno zombie, con la testa piena di stronzate. Era distaccato, irriconoscibile. Siamo stati insieme qualche giorno, era da poco nato il Califfato e la tensione era altissima. Gli ho dato una lettera di sua madre e sono tornato a casa. Dove ho sbagliato, mi chiedo spesso. Ho lavorato troppo? Non sono stato abbastanza presente?».
Le differenze: Georges è ateo, Amimour è credente e praticante, oggi più del 2015. Salines non va quasi mai a Père-Lachaise, il cimitero dove riposa Lola, perché dice che lei vive nei loro ricordi. Amimour e sua moglie vanno ogni settimana sulla tomba di Samy. «Gli avevano promesso il paradiso», dice Amimour, «a me sembra che abbia scelto l’inferno».