In questi ultimi tempi si fa un gran parlare dei PAT, i Prodotti Agroalimentari Tradizionali, le produzioni tipiche del nostro Paese, cioè, che il Ministero delle Politiche agricole ha inserito in un apposito Elenco nazionale. Sarà per la recente pubblicazione in G.U. dell’elenco aggiornato, con decine di nuovi prodotti, saranno stati anche alcuni eventi organizzati anche qui in Campania, l’ultimo sul Laceno, certo è che essi sono al centro dell’attenzione da tempo. Peraltro, proprio il sottoscritto cura una rubrica domenicale del network Borgo Italia, raccontandoli e associandoli di volta in volta ad un borgo della provincia italiana.
Ma cosa sono in realtà i PAT e sono funzionali agli obiettivi di salvaguardia e valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche e delle tradizioni della cucina popolare dei nostri territori?
Nati un po’ alla chetichella, nel 1999, da una felice intuizione di Paolo De Castro, tra i migliori e più competenti ministri dell’agricoltura in assoluto, essi erano stati concepiti come i fratelli poveri dei prodotti tipici a marchio dop/igp. Quelli che non potevano permettersi, almeno all’epoca, di sfidare l’UE per ottenere un riconoscimento prestigioso ma oneroso e complesso, avendo numeri dal modesto peso specifico, ma che andavano comunque valorizzati, non attraverso un marchio geografico, ma inseriti in un Elenco nazionale, comunque autorevole, che avesse l’obiettivo di tracciare e censire il patrimonio delle eccellenze dell’immenso paniere delle tipicità italiane. Siamo anche, storicamente, nella fase in cui le De.Co., che l’Associazione Res Tipica dell’ANCI promuoveva erga omnes sin dagli anni ’80, erano state considerate superate e bandite dal Ministero a seguito del Reg. 2081/92 sulle Denominazioni di origine geografica.
Poco alla volta, anno per anno, l’Elenco è andato popolandosi fino a contenere oltre 5000 prodotti e specialità regionali e, mentre nei primi anni erano le amministrazioni regionali a proporre le denominazioni, sono stati successivamente soprattutto i privati, produttori ed esperti, spesso appoggiati dalle istituzioni locali, a fare a gara nel chiedere l’inserimento delle proprie specialità tradizionali o degli ecotipi autoctoni della biodiversità locale.
Ma servono realmente i PAT?
Personalmente credo di sì, ma con una precisazione, o forse più di una. Qualche giorno fa su Libero, l’ottimo collega Attilio Barbieri, esperto in materia, ha scritto che a distanza di vent’anni i PAT sono rimasti in un limbo cartaceo, con la gloria di un giorno all’anno, quando l’Elenco viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Effettivamente per la più gran parte di essi è così, anche perché solo poche Regioni o siti specializzati, e non per tutti i prodotti, riportano le loro schede, le loro storie, la loro unicità. Già l’unicità, un altro degli aspetti non risolti. Riportare in più elenchi regionali prodotti con la stessa denominazione, come “salsiccia” o “mela limoncella”, non aiuta certo a rivendicare l’originalità e le Regioni e lo stesso ministero farebbero bene a non banalizzare un’iniziativa che reca elementi valoriali che possono contribuire realmente a creare opportunità economiche per gli operatori. Ma non è questo il vero problema.
I PAT devono servire soprattutto ai territori nell’ azione di promozione turistica delle eccellenze e delle specialità gastronomiche locali e alle imprese per valorizzare commercialmente i loro prodotti sui mercati o meglio ancora attraverso la vendita diretta. Ebbene, sono pochi gli esempi virtuosi che hanno visto azioni collettive pubbliche o private volte a evidenziare e ottimizzare il valore aggiunto dell’iscrizione all’ Elenco nazionale di un dato prodotto tradizionale. Costruire cioè intorno ad essi marketing territoriale e valorizzazione commerciale. Quanti sono i produttori che ottimizzano in etichetta o sui propri cataloghi che il prodotto in vendita o la specialità proposta in menu è un PAT iscritto in Elenco? Ed è sicuro che i Comuni, le Pro-loco e le altre istituzioni locali valorizzano nel migliore dei modi i PAT del proprio territorio, anche solo nei propri siti web? A me non sembra, viste le difficoltà che incontro spesso nel mio lavoro di ricerca e di studio nella conoscenza di un dato prodotto, del quale è anche difficile trovare foto degne di tale nome.
Insomma, il lavoro egregio, l’impegno di tanti, nel convincere prima la Regione e poi il Ministero a riconoscere e ad iscrivere un dato prodotto non può esaurirsi nel vederlo in G.U. o su qualche social. Anzi, è da quel momento che inizia la sfida più importante, quella più impegnativa, quella della promozione e valorizzazione, che non può essere solo di un singolo ma dell’intera comunità locale: le amministrazioni, le pro-loco, le organizzazioni di categoria, le associazioni dei produttori, le cooperative.
E per le produzioni con numeri più importanti, acquisiti anche per merito dell’iscrizione ai PAT che spesso rivitalizzano filiere in via di esaurimento, un’altra sfida deve impegnare gli operatori: quella di richiedere alla UE la registrazione tra le D.O. E’ il sospirato salto dalla B alla A, a patto che poi i produttori il marchio lo utilizzino davvero e non lo lascino in bacheca come uno scudetto buono solo per wikipedia e per le statistiche ufficiali.