Il papà si china e le dice all’orecchio la parola del distacco. Un ciao che arriva freddo alla piccola Ida. Ogni volta è cos. Ha capito, ancora piccina, che la vita è tutta una questione di geografia, di spazi, del luogo dove ora è rinchiuso il suo papà, di quello, immaginario, dove lei si rifugerà per non lasciarlo. Un posto riparato dove poter seminare bellezza, nonostante tutto. Lo ha scritto in quel tema di classe. “Io parlo del carcere: x me in una piccola stanza non possono stare in 10 detenuti”. Con quella “x” al posto di “per”, retaggio di messaggi digitali giocati tutti sul filo dei secondi, anche per una bambina di quinta elementare. Perché Ida sa bene cos’è il tempo, conosce il valore degli attimi.
Oggi c’è la premiazione di una gara letteraria nella sua scuola a Scampia e il suo elaborato ha ricevuto una menzione speciale fuori concorso. Mi si avvicina. Al mio fianco c’è il suo maestro dell’asilo. «Vi ricordate di me?», gli chiede a voce bassa. Subito è abbraccio tra i due. È piena di bambini l’aula magna dell’istituto. Mi distraggo, faccio un giro tra i disegni appesi alle pareti e le seggioline allineate per l’occasione. Una bimba mi scambia per maestra e, strattonandomi la giacca, mi sommerge di richieste: «Ho fame», «Ho sete», «Devo fare pipì». Intanto la premiazione va avanti: la pergamena, la lettura del tema, l’applauso. Il tema di Ida non verrà letto. Troppo delicato l’argomento.
Me la ritrovo dietro all’improvviso. Le carezzo il capo. Parlarle mi sembra invadente, ma poi penso che è stata lei la prima a voler comunicare il suo disagio in uno scritto che avrebbe dovuto seguire un’altra traccia. «Il carcere è una cosa brutta, vero?», le domando. «A me fa paura», mi dice incespicando in una erre spigolosa. «Cosa ti impaurisce?», insisto.
«Aspettare,» risponde. «Che cosa?», scavo ancora.
«La libertà». La paura accade. E non puoi farci niente. Ma l’attesa è la parte più dolorosa della paura, perché non accade mai. È l. che l’umano perde ogni geografia, annullato il paradigma degli spazi. Ti rassegni all’approssimazione di desideri, conficcando timori in speranze monche. Adesso sono io a interrogarmi su cosa sia per lei la libertà. Forse anche Ida è imprigionata? Mi sta di fronte. Nasconde il timido respiro nelle strette spallucce.
Ha la malinconia esiliata in uno sguardo. Le maglie della parola sono troppo larghe per trattenere la grandine delle sensazioni di dentro. Solo il silenzio le setaccia.
Quando è andata a trovare il padre – ha raccontato nel suo tema – ha aspettato “sei ore, a volte anche sette. Il colloquio dovrebbe durare al massimo sessanta minuti, ma fanno fare trenta minuti di colloquio.
All’inizio le famiglie si salutano e si abbracciano con i detenuti, ma la guardia suona subito il campanello x far capire che non si possono abbracciare i familiari”. Uno spazio dell’anima regolato dal suono di un campanello.
E tra il prima e il dopo c’è sempre un mentre.
Perciò Ida sa bene cos’è il tempo, conosce il valore degli attimi. Rabbia ed impotenza. Non c’è né capo né coda. Dicono che coniugare opposti richieda uno straordinario senso dell’equilibrio.
Ma io lo sento tutto il palpito afono di Ida. È arrivato il suo turno. La chiamano per ritirare il premio. Il suo sorriso è fermaglio di primavera. In un mese di maggio che si crede febbraio. Ora mi è chiaro. Ida resta libera. Perché non può permettersi di abituarsi alla vita.