Agli inizi di questo mese, nel quartiere popolare della “Pignasecca” a Napoli, uno stimato e zelante parroco ha eretto, nella piazzetta Montesanto, al posto di una fontanella una grande statua del Cristo Redentore perché «potesse accogliere i pendolari che escono dalla stazione della Circumvesuviana». L’iniziativa ha fatto discutere perché mancante delle necessarie autorizzazioni, era cioè “abusiva”, successivamente ha ricevuto il via libera dalla Municipalità e dalla Sopraintendenza. Non intendiamo fermarci su questo aspetto riguardante l’osservanza delle regole sociali anche da parte di operatori religiosi, ma sul fenomeno che è stato definito da qualche decennio come il ritorno del sacro o, se si vuole, degli dei nella sfera pubblica e sopratutto su gesti e manifestazioni religiose nelle regioni meridionali, dagli inchini di statue davanti ad abitazioni di boss o alle immagini sacre che non mancano nelle abitazioni di camorristi secondo la fiction “Gomorra 2”. Al di là di momentanei reportage giornalistici, si avverte l’esigenza di approfondimenti di carattere culturale ma non solo perché non sono fenomeni di un giorno ma rappresentano modelli culturali che, a nostro avviso, non sono stati sempre modellati dalla fede cristiana.
In primo luogo, nell’analisi di questi gesti come gli inchini davanti alle case dei padrini, può soccorrere “Il relativismo culturale” degli antropologi. In un colloquio di Marino Niola con uno dei più grandi specialisti di culture mediterranee, comparso sul La Repubblica del 5 agosto, l’antropologo Michael Herzfeld sfata i cliché negativi delle culture mediterranee. In merito ai segni di ossequio davanti all’abitazione di un boss, lo studioso osserva: «E’ sempre possibile che un delinquente usi i valori, i codici, le ritualità tradizionali per legittimare i suoi atti. Dal mio punto di vista, però, certi fatti sono di ordine criminale solo se la comunità locale li considera tali. Se invece gli abitanti sostengono l’atteggiamento dei criminali, da antropologo devo accettare il loro punto di vista, per poterli osservare e studiare come un fenomeno sociale. (…) Di fatto in ogni paese coabitano due idee di legalità. Una comunitaria, l’altra statuale. In tutte le società considerate troviamo un atteggiamento contrario allo stato. Ma chi ha detto che lo Stato sia la migliore protezione per l’uomo?». Ed aggiunge : «A me invece interessa indagare la differenza tra chi giudica secondo le norme vigenti e chi giudica secondo quei valori che io chiamo “Intimità culturale”». Questo ragionamento di natura culturale forse si può rendere con un altra differenza di tipo filosofico, tra l’etica come discorso sulle norme alla luce di valori, e l’ethos che comprende i mores, i comportamenti sociali concreti. Rimane da verificare quanto i gruppi sociali partecipanti ad una manifestazione religiosa condividano certi gesti ed il loro significato di ossequio e protezione.
In secondo luogo, può essere utile fare riferimento al concetto sociologico di “Religione vicaria”, che indica una minoranza sociale attiva che opera a favore di un più ampio numero che approva ciò che sta facendo, che opera con il consenso circostante. I portatori di statue con le loro ritualità operano effettivamente con il consenso della platea che si assiepa lungo il percorso, che esplicita ciò che culturalmente è condiviso più o meno profondamente, o è solo un folclore storico come rappresentazione di eventi del passato in costumi tradizionali? Esprime un residuo culturale religioso che contribuisce ad un identità qualsivoglia di una comunità rispetto ai trend omologanti della globalizzazione?
Inchini di statue religiose ed immagini religiose non decorano solo abitazioni e parchi in quel di Scampia, non esprimono forse modelli religiosi culturalmente radicati più o meno profondamente in determinati strati di popolazione ed hanno modellato un immaginario religioso condiviso da buoni e cattivi? La questione del “sacro” non è riducibile ad una fiction più o meno adeguata alla realtà, o ad un parroco che di sua iniziativa erige, senza preventiva preparazione, in una pubblica piazza, una statua del Redentore, che non influisce sulle condotte di vita. Riferendosi alla sopravvivenza di queste manifestazioni religiose, in risposta ad una lettera, secondo Corrado Augias nel Mezzogiorno una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semi-consapevole bisogno di assistenza celeste. Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. «Non sarà facile venirne a capo» (La Repubblica, 31 luglio, p. 30).
Pensando alle statue traballanti portate a spalla in processioni estive per borghi e quartieri, non ho potuto fare a meno di ricordare il Decalogo nel libro del Deuteronomio che recita tuttora: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo o immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acqua sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai» (5, 6-9)