Il dibattito attuale degli economisti agrari e degli amministratori delle strutture pubbliche di gestione delle politiche di sviluppo rurale si va sviluppando attraverso un coro di critiche sullo strumento di programmazione del Fondo FEASR (noto con l’acronimo PSR) per il periodo 2014-20. Tutti gli analisti sono convinti che la riforma di tali politiche nello scorso decennio abbia accentuato le complessità programmatorie dello strumento attuatore, già peraltro evidenziate in passato, attraverso un ulteriore eccessivo dettaglio degli interventi ammissibili e delle relative regole di gestione ed attuazione. Come non dar ragione a chi afferma che i PSR, sin dalla scorsa programmazione 2007-13, sono diventati una mera compilazione di misure e tipologie di interventi senza alcuna strategia complessiva e senza poter consentire alle Autorità di gestione e ai decisori politici territoriali alcun margine di libertà di pianificazione delle attività.
La critica diffusa non è tanto rivolta all’implementazione della spesa e ai pagamenti ai beneficiari (tranne alcuni casi dovuti alla complessità delle procedure imposte dalle AdG e alla farraginosità del ruolo e della tempistica degli organismi pagatori, AGEA in primis), che anzi risultano di gran lunga più rapidi rispetto agli altri fondi comunitari come il FSE e il FESR. Bensì all’eccessiva complessità del processo programmatorio che richiede tempi lunghissimi, che vanno dilatandosi ad ogni nuova programmazione. Basti pensare che l’approvazione dei Piani di SR italiani, per il periodo 2014-20, è avvenuta solo a partire del 2015. Dopo oltre due anni cioè di confronti/scontri con i Servizi della Commissione europea, consultazioni di rito con centinaia di (presunti) stakeholder, sessioni di lavoro infinite ed autoreferenziali. Eppure gli organi comunitari, anche in virtù dell’ingresso nella UE di ulteriori nuovi Paesi, avrebbero dovuto comprendere, sin dal 2012, quando sono stati avviati i primi colloqui con le Regioni sulla strategia della nuova programmazione, che i tempi di approvazione si sarebbero dilatati con la certezza di dover annullare quelli del 2014, primo anno presunto di intervento del corrente periodo.
Piani voluti e costruiti, poi, secondo una scaletta preimpostata e considerata dai più pletorica, che così diventano pregnanti di analisi di contesto enciclopediche, che nessuno ha letto o leggerà mai, e contenenti una gamma di interventi ridondante ed eccessiva. Ottocento pagine di media per ogni programma, a fronte delle 450 dei PSR 2007-13. Senza tener conto poi che le stesse regole sono imposte per PSR a dimensione nazionale, come la Polonia, o regionale, come il Molise o la Val d’Aosta, col risultato che la Finlandia è attualmente al 46% di spesa e la media delle regioni italiane è al 16%.
I ritardi nell’approvazione dei Piani e di conseguenza nell’impegno dei fondi stanziati hanno condizionato la fase di avvio della programmazione, producendo un accumulo di residui per il cui smaltimento si confida nelle annualità successive, potendo, le erogazioni, protrarsi anche oltre la fine dei sette anni di riferimento, come accaduto per il 2007-13.
Ma è ovvio che, anche se le AdG, nella emanazione dei bandi, preferiscano affidarsi agli interventi che fanno sicura e immediata cassa, rinviando l’attuazione delle misure strategiche dello SR (cooperazione, qualificazione del capitale umano, trasferimento dell’innovazione, servizi di base) agli anni successivi, è la qualificazione della spesa che viene ad essere mortificata. E infatti, gli osservatori più attenti sono pronti a contestare agli assessori regionali e alle strutture tecniche la bassa qualità e la dispersione dei fondi in migliaia di micro interventi che non potranno certamente cambiare le condizioni delle imprese e della popolazione rurale. Slogan imposti per disegnare la strategia di Europa 2020, come la “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, belli, creativi e ambiziosi nelle intenzioni, ma che poi in realtà si rivelano vuoti e privi di significato in sede di applicazione qualitativa degli interventi e della spesa relativa. Una critica feroce degli analisti è anche sulla filiera organizzativa disegnata dalle politiche di SR, che appare interminabile e che sottopone i potenziali beneficiari ad un’attesa che si misura in anni, dal momento degli annunci a quella dei bandi e fino all’erogazione del contributo. Priorità e strategie proposte nel 2013 che con l’accelerazione dei fenomeni e dell’innovazione tecnologica attuale risultano obsolete già dopo qualche anno e che necessitano di continui aggiornamenti e modifiche dei Piani. Un rischio, quella della tempistica, per il carico eccessivo degli adempimenti amministrativi (e relativi oneri aggiuntivi per la P.A.), che la Corte dei Conti aveva già evidenziato in un rapporto di qualche anno fa. Se a tutto questo vi aggiungiamo anche le capacità tecnico-amministrative delle strutture di competenza e di attuazione degli interventi che non sono le stesse, dalla Finlandia alle Regioni dell’Italia meridionale, il quadro assume rilievi di criticità pesanti. Da qui anche le performance nettamente diverse tra Paesi come Svezia e Slovenia (PSR nazionali) e Regioni come la Campania. Tutto questo si traduce nel dilatamento dei tempi di erogazione dei finanziamenti, dall’emanazione delle graduatorie provvisorie al decreto di concessione (per non parlare poi dei ritardi nell’erogazione dei contributi da parte di AGEA, organismo pagatore di ben 13 Regioni italiane). Rispetto a 5-6 mesi della programmazione 2000-06 si è arrivati ai 15 mesi (con differenze anche significative tra Regioni) dei PSR attuali. Ovviamente non tutto può essere addebitato alla mancata efficienza della pubblica amministrazione (comunitaria, nazionale e regionale) sullo stato di avanzamento dei PSR. Anche le imprese agricole, molto spesso, non hanno colto e tuttora non colgono alcuni spunti di innovazione e di opportunità che alcune tipologie di intervento presentano . Molti bandi, che pure lasciano alcuni margini di flessibilità nei progetti da ammettere a contributo, facendo percepire vantaggi competitivi per le aziende, sono snobbati o hanno scarso appeal, forse perché comunicati male o perchè contengono clausole e prescrizioni stringenti e difficili da aggirare. C’è poi l’annosa questione del credito, per cofinanziare gli investimenti programmati, per il quale spesso si registra l’urticante volontà da parte dell’impresa agricola tradizionale nell’accostarsi con convinzione al sistema dei prestiti bancari.
La variabilità dei tempi di istruttoria e valutazione delle istanze tra regioni è dovuta anche all’aggravio di regole amministrative che alcune Autorità di Gestione hanno voluto introdurre nelle procedure, caricando di ulteriori passaggi il proprio flow shart, al fine di prevenire e mitigare rischi per l’amministrazione stessa, anche in relazione ai temuti controlli ex-post della Commissione europea e della Corte dei Conti europea. E’ uno dei sistemi di difesa delle amministrazioni regionali che si sentono peraltro indebolite dall’invecchiamento e del mancato turn over dei propri funzionari e quadri direttivi, che hanno sostenuto le diverse programmazioni di sviluppo rurale con competenza, professionalità ed esperienza. Nel caso della Regione Campania, che per evitare la soglia di disimpegno dei fondi deve raggiungere una spesa per il 2018 di 295 milioni di euro entro il 31 dicembre prossimo, la Giunta Regionale ha appena messo in campo diverse misure urgenti di accelerazione della spesa stessa, tra cui il superamento di alcune regole dell’iter procedurale con l’implementazione di un nuovo sistema “speciale” per attenuare gli oneri amministrativi a carico dei beneficiari e l’introduzione di aree di collaborazione con tutti i soggetti del sistema e della filiera organizzativa e operativa (soggetti attuatori, organizzazioni, CAA, AGEA, ecc.). Concludendo, è convinzione comune, tra gli esperti, che per le politiche di sviluppo rurale occorrono riforme radicali, orientate alla semplificazione dell’eccessivo dettaglio negli interventi da programmare, lasciando agli organismi attuatori un’ampia dose di flessibilità nello scegliere priorità e strategie operative a livello territoriale.
A livello nazionale, occorrerà probabilmente tornare al dibattito di inizio secolo se le politiche di sviluppo rurale debbano continuare in futuro ad essere 21, o se, per esempio, aggregarle per macroregioni omogenee, attesa la progressiva debolezza amministrativa locale e la farraginosità dell’organismo pagatore centrale. Infine, e questo appartiene al futuro dell’Unione europea, la possibilità di pervenire a regole comuni nell’utilizzazione dei vari Fondi comunitari, soprattutto per facilitarne l’utilizzazione combinata e complementare sui territori, dando così finalmente, alla Programmazione strategica, quel significato alto e determinante per cimprese e, in definitiva, arrivare a quella “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” che al momento è solo uno slogan.
Italo Santangelo