Se gli orrori della Seconda guerra mondiale hanno avuto straordinari narratori italiani e spesso Napoli, con Malaparte e Lewis, è stata al centro di questi scritti, a detta della critica il primo conflitto bellico del ’15-’18 non ha mai avuto una degna declinazione narrativa. Forse però bisogna ricredersi, e anche in questo caso Napoli gioca il suo ruolo. Basta leggere, in una preziosa edizione appena arrivata in libreria, La paura e altri racconti della Grande guerra di Federico De Roberto, noto finora soprattutto per il suo romanzo I vicerè – finora perché da oggi in poi non si potrà non tenere conto di questi suoi testi quando si parlerà degli orrori della Prima guerra mondiale, e in generale di tutte le guerre.
De Roberto nacque a Napoli nel 1861, quando da pochissimo si era compiuta l’Unità, e nella sua infanzia ascoltò gli insegnamenti di un padre che di mestiere faceva proprio il soldato, ufficiale di stato maggiore agli ordini di Francesco II. Dunque ebbe modo di crescere nutrendosi delle aspirazioni dei popoli a sentirsi nuovi protagonisti di un nuovo Stato, ma anche ascoltando i racconti militari di un padre che proprio delle esperienze di guerre napoletane aveva fatto il suo mondo da tramandare al figlio. Il sapore di questa infanzia napoletana con sottofondo di fanfare militari si ravvisa spesso in questa raccolta, il cui tema principale fu affrontato dall’autore per la prima volta in diverse pubblicazioni stampate nel 1919 dall’editore napoletano Treves. Non a caso, anche qui, ci troviamo in presenza di un “libraio napoletano”, che durante la guerra riesce a rifornire di libri il Capitano Tancredi; si ravvisa spesso anche la figura di un moderno Pulcinella dietro il comportamento di alcuni soldati raccontati tra il serio e il faceto; capita che gli spaghetti siano una trappola per prigionieri. Di questi racconti, il più amaro è Il rifugio, storia di un disertore e della sua fucilazione raccontata da un ufficiale ospitato per caso proprio dai genitori del soldato fucilato; il più toccante è La paura, dove l’orrore della guerra contagia anche la natura, a sua volta percepita come un elemento mostruoso. Lo stile è secco e diretto, ma si avverte un sottofondo tragicomico, a tratti grottesco, che ha il merito di anticipare l’unica rappresentazione artisticamente valida della Grande guerra, l’omonimo film di Monicelli.
De Roberto racconta la quotidianità squallida e deprimente dei commilitoni e il loro sacrificio, mandati al macello da condottieri ottusi e impreparati. Questi chiamano uno ad uno i loro soldati e ordinano di lanciarsi all’attacco mandandoli incontro a morte certa. Prima di obbedire, ognuno si esprime nel proprio dialetto, ancora incapaci di comprendersi a vicenda. In questa raccolta di scritti siamo in presenza di un grande affresco sulla bestialità della guerra: dove “la natura aspra e crudele, impervia e tenebrosa del paesaggio- fa sfondo a inutili eroismi e patetiche diserzioni, e l’uso virtuosistico dei diversi dialetti, oltre a confermare l’attitudine plurilinguistica della scrittura derobertiana, testimonia di una unità nazionale irrealizzata”.
E se la “Grande guerra” fu vissuta da lontano, salvo qualche sporadica apparizione di minacciosi dirigibili, attraverso il pianto disperato per i tanti napoletani caduti al fronte, la seconda guerra mondiale vide la popolazione protagonista e la città martellata da oltre 100 bombardamenti.
Cannoni puntati sulle case alle falde del Vesuvio. E dietro il vulcano che erutta fumo, in gara inconsapevole con i carri armati della Quinta Armata statunitense in marcia tra pietre di lava e macerie sul colle dei Camaldoli. E’ l’avanzata degli Alleati, una guerra di liberazione che si allungherà in calvario per i liberati. E’ l’immagine, inedita e muta, scelta come copertina e contraltare delle Voci dalla guerra, raccolte a Torre del Greco. Un libro, cento testimonianze, il racconto corale di una città negli anni 1940-1945.
“Ma sai che per i nostri ragazzi Mussolini è lontano come Giulio Cesare?”. E’ iniziata così. Chiacchiere di quattro professoresse in pensione: Lina De Luca, Lucia Forlano, Anna Maria Galdi, Anna Maria Incaldi. Confidenze. Ricordi. Agendine paterne frugate nei cassetti. Documenti rispolverati all’archivio storico del Comune. E la scoperta di un sentimento condiviso: il rammarico per la memoria perduta nei figli e negli alunni, inconsapevoli come quel Vesuvio con lo sbuffo. Così la deformazione professionale diventa avventura: riproviamoci noi, a insegnar loro cos’è successo nel luogo in cui vivono. Settant’anni fa. “Primo ottobre 1943: percorrendo via Nazionale, gli americani entrano in Torre del Greco”. E’ l’appunto olografo sull’agenda di Domenico Forlano. E’ uno spartiacque. Fasullo. Il prima e il dopo accomunati dai lutti e le privazioni della guerra. Perché, come spiega Flavio Russo nell’efficace ricostruzione dell’”operazione Avanlanche”, che fa da prefazione al volume, tra lo sbarco degli Alleati a Salerno e l’agguerrita resistenza della X Armata germanica, “per le popolazioni dei tanti abitati che si vennero a trovare sulla direttrice dell’avanzata fu l’inizio del martirio, alla mercè del vecchio alleato disperato quanto feroce e senza alcun aiuto da parte del nuovo, diffidente quanto guardingo”.
La gente di Torre lotta e muore. Nelle Vocidallaguerra, le storie di chi ce l’ha fatta e chi no. Ma non è una spoon river in salsa vesuviana, questo libro pubblicato dalle Edizioni Scientifiche e Artistiche per volontà dell’Associazione culturale Arcobaleno con il contributo del Comune di Torre del Greco e della Banca di Credito Popolare. E’, semplicemente, “la nostra città che si racconta”, secondo l’orgoglio pudico delle autrici.
“Chi ha perso ‘na creatura?”. Teresa è nata nell’estate del ’43. In un ricovero. Lo stesso in cui la madre corre, con lei neonata infagottata in braccio. E’ un attimo, la “mappata” si apre. Teresa non c’è più. La madre lo scopre nel rifugio, Con orrore. E subito con sollievo, quando ascolta il tam tam delle voci che arrivano dalla strada. Qualcuno ha salvato Teresa. E tutta Torre fa coro per restituire la bambina alla madre. “Chi ha perso ‘na creatura?”. Perse per sempre, invece, le piccole orfane di Santa Geltrude sepolte sotto le bombe del 13 settembre. E qui il racconto, tratto dall’archivio tornese, si fa raccapricciante. I cadaveri dilaniati e smembrati vengono raccolti alla rinfusa dai vigili. Non c’è tempo per la pietà. Neppure per la precisione. Nove mesi dopo, una lettera della madre superiora lamenta che dalle macerie “esala un lezzo di carne in putrefazione”. I vigili tornano, scavano, dopo un tempo lungo quanto una gravidanza si potrà dare sepoltura anche alle orfanelle uccise due volte dalle bombe e dall’oblio.
E’ un mondo spietato quello narrato nelle Voci dalla guerra. Ma anche no. C’è spazio per la solidarietà. La gentilezza. La poesia, pure. Ad esempio quella dei versi con cui Salvatore Argenziano rievoca “un momento di misticismo”. Accade giù al porto, “abbasciammare”, sotto gli occhi stupiti dei torresi. Indiani con i turbanti scendono dalla jeep, in corteo portano sugli scogli la salma di un compagno avvolta in un sudario. Le danno fuoco. Nenie sommesse intorno alle fiamme. “Sotto la ferrovia la folla tace, come in un anfiteatro, in attesa di un insolito spettacolo”. E’ un funerale d’altre latitudini. I torresi capiscono. E partecipano. Il rito è un vassoio che gira con del cibo. “In tanti spettatori dagli scogli si avvicinano per partecipare alla inattesa esotica mensa”.
Torre del Greco non dimentica le sue “voci dalla guerra”. Anzi, le moltiplica. E’ l’effetto cascata dei ricordi. E’ la contagiosa e salvifica voglia di testimoniare, perché, come scrivono le autrici prendendo a prestito Kabil Gibran, “il ricordo è un modo d’incontrarsi, a Yotte. Ogni volta che il libro viene presentato, in un circolo, una sala parrocchiale o una scuola – saltano fuori altre storie, altri ricordi, altri documenti, altre persone che sanno. E che vogliono raccogliere il monito di De Luca, Forlano, Galdi e Incaldi: pronunciare ai ragazzi d’oggi “parole che ritornano a parlare”.
La fotografia di Robert Capa coincide con l’immaginario di guerra del Novecento. Eppure, rispetto al già noto e universalmente riconosciuto, l’archivio Capa di New York raccoglie e conserva una serie di immagini circolate molto meno, almeno poco viste, che possono raccontare diversamente o moltiplicare i punti di vista. Alcune di queste riguardano l’Italia del 1943-44, appartengono all’Italia Meridionale, a Napoli e Palermo, raccontano di un territorio per lo più contadino e di una popolazione sofferente, dell’incontro con le truppe alleate, di una vita quotidiana durissima e di città massacrate dalle bombe. L’occhio di Capa accompagna le truppe alleate, da Monreale a Troina, fino a Cassino, segue pedinando i combattimenti sul Valico di Chiunzi, fotografa gli appostamenti degli alleati e i prigionieri tedeschi, racconta l’incontro con un’Italia essenzialmente povera e contadina e la trasformazione degli spazi dettate dalle esigenze della guerra.
C’è una sequenza bella che potrebbe evocare le staged photograpy contemporanea: mostra una chiesa di Maiori trasformata in ospedale per i feriti, una sagrestia che assume le sembianze di una sala operatoria, dove con luci, lettini e strutture di emergenza l’intervento è ancora in corso. Insieme c’è lo scontro e il possibile incontro, i soldati americani accolti festosamente per le strade di Monreale e la fuga dai luoghi dove impazza il combattimento nelle campagne che circondano Montecassino, i cingolati alleati che si incrociano con gli asinelli dei contadini meridionali. Naturalmente Napoli, con una sua parte importante, nel quotidiano di ristrettezze e povertà. Tradotto essenzialmente da donne, anziani e bambini in fila per l’acqua con le bocce di vetro in spalla in una foto che ricorda gli scatti della Farm Security Administration durante la grande depressione americana. O ancora con la posta centrale ridotta ad una montagna immensa di macerie. Distrutta da una bomba ad orologeria lasciata dai tedeschi ad un esercito di americani a spostare pietra su pietra. Al fianco di una scena tragica e famosa anche grazie alle fotografie di Capa e pubblicata da “Life” l’8 settembre del ’43, con la disperazione e la pietà delle madri al funerale dei ragazzi vittime dei combattimenti delle Quattro Giornate di Napoli. Nel suo racconto diventerà questa l’immagine che accompagna il suo arrivo in Europa: le venti bare troppo piccole, per contenere anche i piedi dei bambini.
A settant’anni di distanza dallo sbarco degli alleati in Italia, le fotografie di Andre Friedmann, ebreo ungherese, consegnato alla storia con il nome di Robert Capa, ricostruiscono una guerra fatta di gente comune, di soldati e civili, vittime di una stessa strage. L’obiettivo di Capa tratta tutti con la stessa solidarietà, possa essere la guerra in Indovina o la guerra civile spagnola, e si vede per esempio in una sequenza dedicata ad Agrigento, dove sulle stesse macerie dei palazzi passano e si arrampicano i bambini, i soldati stranieri, e le donne anziane vestite rigorosamente di nero.
Monte di Dio si erge alta sul cunicolo che stiamo per scendere: la scala del Settecento ci porterà giù per oltre venti metri. Il palazzo soprastante e i palazzi vicini, forse una gran parte del quartiere, L’ha usata per cercare scampo durante gli interminabili quattro anni di bombardamenti subiti da Napoli nell’ultima guerra. La sala in cui entriamo era adibita a studio veterinario – gabbiette per animali, grossi lavatoi e, sulle mattonelle bianche, le foto degli anni di guerra, i bombardamenti, i rifugiati – quindi ci ha abitato un falegname – casa e puteca. Scendiamo nelle strette spire delle scale e subito la domanda affiora: come facevano di corsa, spaventati, i vecchi e i bambini oltre agli adulti, a non cadere lungo queste scale? Giunti nel primo, arioso spazio sotterraneo: i napoletani arrivavano giù rotti, gambe e braccia spezzate, come minimo feriti. E i grandi antri dell’acquedotto della Bolla, le cave antiche dei cavamonti, i passaggi dei pozzari – nella tradizione popolare diventati monacielli a causa delle improvvise comparse notturne dagli anfratti del sottosuolo – si trasformavano subito in ospedale da campo. Ad attrezzare gli spazi l’UNPA, Unione Nazionale Protezione Antiarea, che nelle antiche cisterne e nelle cave realizzò allacciamenti di luce, allargò i passaggi, costruì i bagni: latrine col buco o latrine con i water, più chic, per il quartiere Chiaia, dove il Tunnel spunta, in via Domenico Morelli. E poi gli spazi per le partorienti, la calce per coprire il tufo che dopo qualche ora manda esalazioni: i rifugiati restavano spesso giorni e settimane sottoterra, specie i più anziani che a salire e scendere ad ogni allarme non ce la facevano proprio. Racconta la nostra dolce ed entusiasta guida che qualche testimone sopravvissuto è venuto in visita al Tunnel: erano bambini fra il ’40 e il ’44. Si divertivano, beati loro, a vivere l’avventura sotterranea, la fuga dalle abitudini, il ritrovarsi tutti insieme con gli altri bambini del quartiere sottratti in parte allo stretto controllo dei genitori, alla scuola, alle case.
Qualcuno ha segnato il suo nome e ora controlla dov’è e lo ritrova nel punto esatto in cui lo ricordava, inciso nella parete: è più in basso, commenta. Tutta la nostra infanzia si è svolta più in basso e non finiamo mai di stupirci d’essere diventati alti, di averlo potuto fare, nel caso di chi è sopravvissuto. “Noi vivi”, si legge a grandi lettere sul fondo di una delle caverne, fra i resti pompeiani dei tetti di guerra, delle lettighe per gli per gli ammalati, persino dei giocattoli – minuscole carrozzine per bambole – rimasti a testimoniare il passato. Questa scritta potrebbe essere la nostra lapide di oggi, una lapide senza marmi, senza bellurie, tutta disperazione, come un urlo di spavento o di sollievo, di speranza. Ma la città è piena di lapidi in ogni punto in cui sono morti cittadini inermi sotto i bombardamenti inglesi, americani e tedeschi. Napoli è la città d’Italia più danneggiata dai quattro sganci di bombe – sempre primati sgradevoli – in quanto porto strategico, ponte nel Mediterraneo, base navale militare.
Si muore in pieno giorno nei tram, ancora seduti e diretti verso una meta che mai si raggiungerà, a scuola e nelle strade, cercando la via per una delle mille scale sotterranee che punteggiano la città scavata dalle acque e dagli uomini. Si muore sotto le ventiquattromila bombe lanciate in centotrenta incursioni, per un totale mai certo di ventimila vittime con conseguente distruzione del quaranta per cento delle case della città. Ancora fino al decennio scorso si sono restaurate, abbattute e riaperte strade – vedi via Marina – e i quattrocento ricoveri napoletani, oggi in parte visibili nei percorsi turistici e archeologici della città sommersa, conservano ogni segno, ogni ombra di morte.
La lapide più famosa, simbolica, è quella posta dentro Santa Chiara, bombardata il 4 agosto 1943, scambiata per obiettivo militare a causa del grande tetto o forse bombardata comunque, nonostante i segnali messi per indicare chiese, palazzi storici, l’Archivio di Stato.
“Dopo secoli di glorie questo tempio dalla guerra distrutto risorge ara di pace nel cuore di Napoli antica ed accoglie nomi e memorie di quanti versarono il sangue in auspicio di amore tra i popoli, il 4 agosto 1953”. La chiesa che i secoli avevano reso barocca e stuccata tornava gotica, le are dei re danneggiate, gli affreschi irrimediabilmente persi. Lo stesso giorno, poiché il bombardamento coprì l’intera città, in vico Fiorentine a Chiaia: “Unione cattolica operaia. M.SS. dell’Arco ai caduti del 4 agosto 1943” Una bella lapide con il bombardamento aereo ritratto nel marmo, che fa’ il paio con la lapide in via Poggioreale, 52: “Ai caduti civili della zona industriale che dal profondo abisso delle iniquità umane irrorando il cammino di sangue innocente assursero alla gloria dei cieli”. Anche qui, una lapide con aerei in volo e macerie. E in via Reggia di Portici, 9: “Ai caduti Rione S.Erasmo militari e civili della guerra 1940-1943 l’Ass.S.Gennaro dei sinistrati del III° Granili memore del loro sublime sacrificio – 19 settembre 1953”. E ancora in via San Biagio dei Librai: “Ai caduti della parrocchia di S. Gennaro all’Olmo nella guerra 1940-’44 sul campo di battaglia, nelle incursioni (seguono molti nomi) il parroco abate e il gruppo uomini cattolici Giuseppe Moscati posero”. L’anno è il 1948. L’anno prima, nel ’47, è posta la lapide di via Giuseppe Marotta: “La Sezione Porto con infinita pietà ed affetto ricorda i suoi caduti civili vittime innocenti delle atroci incursioni aeree dell’infausto periodo 1940-1944”. E chissà quante altre ora me ne sfuggono, a tracciare sprofondamenti, crolli di mura nei rifugi seppelliti dalle macerie come accadde a via Salvator Rosa, l’11 gennaio 1943, dove il ricovero crollò e fu ricoperto dalla calce nell’impossibilita’ di recuperare i corpi.
Fa caldo sottoterra. Lungo i percorsi della Bolla inseguiamo il tracciato del livello delle acque, incontriamo le ossa di un cagnetto morto lungo un corridoio, alziamo la testa a verificare i pozzari riuscivano a passare in corridoi larghi appena una trentina di centimetri e ad arrampicarsi mani e piedi per altezze vertiginose, sfruttando i buchi a scala dei cavamonti. Ma il freddo della paura e il tepore della solidarietà che pure i napoletani seppero sviluppare nei rifugi – nessuno rubava le borsette con gli Oro Saiwa, nessuno toglieva il cibo all’altro, nessuno sottraeva un bene al proprio vicino – non ci lascia . A giorni qui sotto si aprirà un percorso “avventura” e gli speologi porteranno i visitatori a scoprire profondità acquatiche del Tunnel lungo l’acquedotto del Carmignano.
Una grande occasione per rivisitare i giorni del dolore e della paura.
I morti ed i vivi della città di sotto ci aspettano.