La parola femminicidio suona male. Però serve. Definire in modo appropriato la categoria criminologica del delitto perpetrato contro una donna perché è donna, è necessario. Per capire e spiegare meglio contesti, cercare di non banalizzare il fenomeno e di non ridurlo a una invenzione mediatica. Anche perché i numeri parlano chiaro. Oltre 100 i femminicidi dall’inizio dell’anno. Praticamente uno ogni tre giorni. In giugno Camera e Senato hanno avviato un iter legislativo per contrastare la violenza sulle donne: attraverso la ratifica della Convenzione di Istanbul e della presentazione in agosto di un decreto legge, convertito in legge pochi giorni fa. Provvedimento che, però, ha attirato su di sé svariate polemiche e che ha subito continui rinvii nella sua finalizzazione. Quindi, se rubare è un reato, frodare anche. Uccidere una donna? Sì, però… C’è sempre un ma quando si parla di femminicidi o violenza di genere e la condanna difficilmente è netta, a volte perfino dal punto di vista giuridico, quasi sempre da quello morale e dell’opinione pubblica, influenzata anche delle parole errate usate per descrivere i fatti.
Dopo l’uccisione della giovane piacentina Elisa Pomarelli da parte di un uomo descritto in un paio di casi dai media gigante buono o persona sensibile, le alzate di scudi sono state numerose, e le riflessioni ritenute necessarie per cambiare nettamente rotta altrettante. Anche perché non si tratta di un caso isolato visto che è di poche ore fa la sconcertante intervista di Bruno Vespa durante Porta a Porta a Lucia Panigalli, sopravvissuta per miracolo all’aggressione di un uomo al momento già in libertà, nonostante dal carcere avesse tentato di pagare un sicario per portare a termine quell’omicidio non riuscito al primo colpo. I toni del giornalista che ora si trova sotto accusa con due esposti e la commissione disciplinare dell’Ordine dei giornalisti che ha avviato i primi accertamenti.
Frasi e domande più indicate al commento di un gossip che al racconto di uno sfiorato femminicidio, con risatine di sottofondo, diversi be he, stoccate più che vagamente accusatorie. Come sempre le domande non hanno riguardato l’aggressore ma sono spaziate dai classici «Di cosa si era innamorata»?, «Era così follemente innamorato di lei»?, all’inutile «Aveva una nuova relazione»?, passando per dichiarazioni altrettanto prive di senso quali «Beh, vi siete frequentati per 18 mesi, non pochi insomma», per poi giungere alla sentenza definitiva: «Se avesse voluto ucciderla l’avrebbe fatto».
«Il linguaggio è sempre stato un problema e continua ad esserlo, nonostante la presa di coscienza dello stesso Ordine dei Giornalisti che ha più volte approfondito il tema, stilando anche una lista di termini banditi. A livello di formazione però la strada è ancora molto lunga», sottolinea Lucia Annibali, avvocato e deputata del neonato soggetto politico di Matteo Renzi, Italia Viva, sfregiata con l’acido da Rubin Talaban su ordine del suo ex fidanzato nel 2013 e da allora molto attiva contro la violenza sulle donne.
Usare un termine piuttosto che un altro non è solo un errore di forma, ma una scelta che colpisce prima di tutto le donne stesse. «Si privilegia la notizia senza quasi mai pensare ai protagonisti della narrazione e alle loro reazioni. – continua Lucia Annibali – Sono tanti gli aspetti che feriscono, anche quelli che potrebbero sembrare banali come sbagliare la data dell’evento, o il lavoro o l’età della parte lesa, dettagli per un occhio esterno ma non certo per chi abbia vissuto un’aggressione. Entrare in una storia drammatica è complicato e si dovrebbe farlo con la massima attenzione, mentre a volte prevalgono scarsa concentrazione o interesse da parte di chi informa, oltre alla voglia di romanzare l’accaduto con dettagli morbosi e ininfluenti. Ricordo bene il dolore che provai quando, a processo ancora aperto, una trasmissione televisiva intervistò il mio ex compagno (Luca Varani, condannato in via definitiva a vent’anni di reclusione) non aggiungendo nulla alla causa ma generando solo ambivalenza di giudizio e a me tanto dolore visto che subito dopo ricevetti messaggi con insulti di ogni tipo».
Sono infinite le forme di informazione distorta ma ad accumularle tutte è una sorta di cornice romantica che avvolge fatti che con hanno nulla a che spartire con sentimenti positivi, men che meno con l’amore. Cercare le cause di certi gesti oltre la volontà del carnefice non fa altro, infatti, che spostare la posizione della donna da vittima di un comportamento violento a istigatrice, per non dire responsabile. «Se ha da poco lasciato il compagno, ad esempio, lo si accentua, come a sottintendere che se gli fosse rimasta accanto non sarebbe successo nulla e che l’abbandono giustifichi un’azione spesso definita impulsiva ma nella maggior parte dei casi premeditata. Il concetto di raptus giuridicamente non esiste e parlare di passione o gelosia non è più tollerabile perché porta a sminuire la gravità dei fatti e, come successo in alcuni casi, a sentenze scandalose. L’assassino di Elisa non è un gigante buono, né un brav’uomo ma una persona che ha compiuto un reato», continua Lucia Annibali.
Se per l’avvocatessa a generare questa fluidicità di giudizio e narrazione è una cultura patriarcale ancora piuttosto radicata e ricca di stereotipi, secondo Gessica Notaro non si tratta sempre di un comportamento conscio. «Credo che normalmente la mente umana fatichi a concepire una simile cattiveria. Razionalizzare che davvero un uomo possa provare tanto odio da uccidere una donna o ferirla è difficilissimo e sfugge alla comprensione, quindi il cervello si mette alla ricerca, anche involontariamente, di una spiegazione vagamente plausibile». Miss Romagna e ora personaggio televisivo, Gessica venne sfregiata con l’acido dall’ex, Edson Tavares (condannato a 15 anni di reclusione) nel 2017 e da allora porta ovunque la propria testimonianza e un messaggio di rinascita che pare non passare attraverso il livore nei confronti di una società che pone sul tavolo degli imputati anche le donne. «Non credo sia una questione di maschilismo e capisco in parte chi usa termini come sembrava una persona mite e ben inserita nella società perché si parla di soggetti particolarmente abili a celare la propria vera identità. Sono manipolatori seriali che inizialmente mostrano il miglior volto, altrimenti nessuna cadrebbe nella loro trappola, e che in pubblico mantengono quella versione di sé, salvo poi a casa trasformarsi in mostri».
Un altro aspetto da non sottovalutare per entrambe è la visione della donna in sede processuale, troppo spesso relegata al ruolo di vittima. «Questo – precisa Lucia Annibali – è sbagliatissimo perché é proprio quando si inchioda il violento alle proprie responsabilità in aula che si compie il più grande passo di emancipazione. Anche giudicare le relazioni è profondamente ingiusto perché si tratta di storie con disparità di forze incredibili e porvi l’accento non incoraggia certo a denunciare». Questo anche alla luce di una legislazione che pare avere ancora le idee poco chiare, nonostante la recente approvazione del Codice Rosso, giudicato come un passo avanti per Gessica Notaro e invece come un’occasione persa per fare di più da Lucia Annibali.
Tanti, dunque, i punti ancora da chiarire in un tipo di narrazione che, nonostante si provi ciclicamente, non riesce ancora a identificare in modo chiaro e netto colpevoli e innocenti.