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Il fertility day: gli effetti perversi di una società incapace di immaginare se stessa

Pochi giorni fa il Ministro della Salute Lorenzin ha indetto una giornata dedicata alla fertilità, il cosiddetto fertility day. L’obiettivo di tale campagna è quello di informare sulle possibili cause dell’infertilità, di sensibilizzare le coppie a procreare, di acquisire la conoscenza scientifica sulla materia e di comprendere le scadenze biologiche dell’uomo e della donna. Una mossa politica che forse faceva piacere al comitato del family day visto che, dopo aver varato la legge Cirinnà, si era diffuso un pò di malcontento generale. La ricaduta però è stata nefasta: è stata percepita come una festa dedicata ai più fortunati, a quelli che ce l’hanno fatta, a quelli che possono permettersi di creare una famiglia. Al di là di considerazioni faziose, possiamo dire che è stata un’americanata che non ha prodotto effetti sperati: sdegno e indignazione sono state le reazioni più diffuse, e c’era da aspettarselo visto che le condizioni di vita in cui sono versano le nuove generazioni non sono delle migliori. E si, perché decidere di fare un figlio quando si vive l’inoccupazione o la precarietà, non è facile se non addirittura impossibile. Un tempo la famiglia nucleare era strutturata intorno al capofamiglia a cui veniva garantito un posto fisso, la possibilità, quindi, di poter organizzare la vita secondo passaggi lineari e prestabiliti. Fare i figli era più semplice proprio perché il formato famiglia era strutturato intorno a politiche che non dovevano poi impegnarsi così tanto per garantire tutele e servizi, grazie soprattutto al ruolo cardine assunto dalla donna nella cura familiare. Oggi, trovarsi senza lavoro improvvisamente, ricevere uno stipendio non adeguato ai costi della vita, lavorare part-time, non fa sentire sicuri, specie quando, a questo, si aggiunge l’inconsistenza del welfare, oramai incapace, da tempo, di rispondere ai bisogni di una società in continua trasformazione. Tanto per citarne una, affermare che non esiste una programmazione seria di politiche che favoriscono la conciliazione vita/lavoro per le donne, non è una lamentela fine a stessa ma è un dato di fatto: se si guarda agli altri paesi europei, ci accorgiamo che questa caratteristica è un fenomeno tipicamente italiano. D’altronde, chi dovrebbe fare un figlio? Un insegnante che oggi lavora sotto casa e il giorno dopo lavora sulle Alpi? Un giovane 34 enne, laureato, figlio di un disoccupato, che lavora ancora part-time in un call center per mantenere la sua famiglia di origine? Oppure una precaria con la partita iva, che un giorno lavora e l’altro no e che deve stare attenta a non rimanere incinta per non uscire dal giro? Essere genitore è un privilegio di pochi cioè di chi lavora, di chi si è sistemato grazie ad un amico potente oppure ad una famiglia alle spalle che conta. E poi ci sono le persone che vorrebbero avere un figlio, ma non possono per vari motivi, spesso dovuti a problemi di salute. Insomma il fertility day ha diviso nuovamente il paese, tra garantiti e non, tra chi può e chi non può.

Scoppia la polemica proprio perché la campagna ha prodotto effetti perversi e non intenzionali- usando una terminologia cara a Boudon (1981)– scoperchiando il vaso di pandora e liberando, quindi, tutti i mali dell’Italia.  Dietro i politicismi, le divisioni e i poteri forti, c’è la politica reale del paese. Una politica reale che coincide fortemente con le condizioni economiche e sociali di un paese che ha semplicemente bisogni da soddisfare e diritti da difendere.

Ma sicuro che abbiamo detto tutto? non si ha la sensazione di tralasciare qualcosa? Secondo me, manca una domanda fondamentale: ma le nuove generazioni hanno intenzione di fare figli? Hanno voglia di assumersi una responsabilità tale da mettersi alla prova, da sacrificare una parte di sé e della propria libertà? Sicuramente la risposta al quesito non è la mercificazione della figura femminile, facendo assomigliare il corpo della donna più ad un contenitore in provetta che non ad un’individualità fatta di emotività, aspirazioni e diritti. D’altronde, le famiglie delle società premoderne si impegnavano a fare tanti figli per un’esigenza di tipo pratica ovvero per garantire l’autosostentamento; quelle della rivoluzione industriale, invece, sono di tipo nucleare, vedono separate l’area domestica dal lavoro e quindi hanno la libertà di scegliere se e quando fare un bambino. Indubbiamente, la libertà di procreazione, e di conseguenza la libertà del corpo della donna, coincide con una delle più grandi conquiste del secolo scorso.

E oggi cosa rimane? Probabilmente, il sogno di poter offrire ai propri figli un mondo migliore si infrange contro la cruda realtà di non avere, forse, le possibilità adatte. E’ una questione antropologica- sociale che nel dibattito politico, al di là delle dèbacle interne, non trova un reale interessamento, come se la classe dirigente, e la stessa società odierna, fosse incapace di immaginare se stessa e di conservare lo spirito di adattamento.

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