Ancora più di cosa fare con la Riforma del Lavoro, il premier Matteo Renzi ha dimostrato sin da subito di essere interessato a definire con chiarezza contro chi volesse farla. E’ il fondamento stesso della “filosofia” della rottamazione lo stare contro qualcuno, e nel caso specifico del Jobs Act, quel qualcuno sono stati sin da subito i sindacati e poi una parte del Partito Democratico che gode di un’interlocuzione privilegiata con la principale organizzazione sindacale del Paese, la Cgil. La dimostrazione che più dei contenuti, al premier ha sempre interessato la forma, è tutta nella decisione di venire incontro alle richieste arrivate dalla minoranza del partito dopo aver innalzato fortemente il livello dello scontro nelle ultime settimane, fino a paventare la possibilità di una fuga a sinistra di alcuni democratici. Dopo aver usato il bastone a lungo contro i suoi, Renzi ha deciso di porgere loro una carota, un apparente arretramento dei suoi propositi riformatori, che cambia non molto la sostanza delle cose ma dimostra che per l’ex sindaco di Firenze non ci sono totem – come è per la sinistra l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – e però non ci sono neppure tabù. Il premier è riuscito nell’intento di marcare ulteriormente le distanze tra sé e le diverse anime del suo partito, ed è riuscito anche a dire all’Italia che non ha paura di mettere in discussione – ed eventualmente decidere – tutto, anche temi cari al suo mondo politico di riferimento.
A conti fatti, con l’emendamento presentato dal Governo in commissione Lavoro alla Camera, l’articolo 18 (per i neo assunti perché per tutti gli altri le cose restano invariate) risulta completamente superato. Il diritto al reintegro per i licenziamenti di natura economica scompare: il lavoratore avrà diritto solo a un indennizzo crescente con l’anzianità aziendale e si prevede l’introduzione di un riconoscimento economico per chi rinuncia al contenzioso. Resta invece il reintegro per i licenziamenti discriminatori e per alcune fattispecie di quelli disciplinari. Saranno poi i decreti attuativi a chiarire quando un licenziamento sarà di natura economica, in particolare se dovrà essere legato a crisi aziendale o anche a contrazioni del mercato; così come si dovranno pure tipizzare i comportamenti del lavoratore sanzionabili per ridurre al minimo il ricorso alla giustizia.
Il mezzo passo indietro del Governo inoltre prova anche a strizzare l’occhio alla piazza, anzi alle piazze che si sono mobilitate nelle ultime settimane, a partire dalla manifestazione dello scorso 15 ottobre. Parla alle anime variegate di quelle piazze e prova a far passare il messaggio del “siamo in ascolto”. Diversi potranno abboccare, altri soprattutto quelli più sindacalizzati no. I segretari nazionali di Cgil, Cisl e Uil sembrano determinati ad andare avanti nella contrapposizione e non abbassare la guardia. Restano infatti altre questioni da chiarire come quella del controllo a distanza dei luoghi di lavoro, quella dell’inversione dell’onere della prova nei casi di licenziamento discriminatorio, e poi ci sono la conferma del sesto anno di blocco del rinnovo del contratto nazionale degli statali e le non risposte sui pensionati e la Legge di stabilità, che hanno convinto la Uil a convocare lo sciopero generale (da cui per il Garante andranno esclusi dallo stop treni e parte del trasporto pubblico locale) assieme alla Cgil e all’Ugl, e la Cisl a chiedere di fissare unitariamente quello del pubblico impiego, settore in cui il sindacato della Furlan fa la voce grossa. Si scopre così che il bastone di Renzi potrebbe rivelarsi carota anche per il sindacato: anziché far male ai lavoratori, potrebbe restituire loro un fronte sindacale compatto come non si vedeva da tempo, potrebbe riassegnare loro un peso determinante nel governo dei processi democratici del nostro Paese. Sindacati estromessi dalle decisioni dalla “porta” principale che si risiedono ai tavoli passando per la “finestra”, ma perché ciò accada è necessario non perdere il controllo della piazza.