Quella dei 43 studenti scomparsi in Messico, lo scorso 26 settembre, è una faccenda talmente nera e oscura che non si riesce a distinguere chi siano i buoni e chi i cattivi, di chi dubitare e di chi fidarsi. Perché la verità è che chi ti dovrebbe proteggere potrebbe essere il tuo peggior nemico. Erano studenti della Scuola Rurale di Ayotzinapa, quelli che sono scesi in piazza a protestare, appena due mesi fa, contro la riforma dell’istruzione, ma la manifestazione ha finito per essere tragicamente repressa nel sangue dalle forze di polizia, in uno scontro armato che ha lasciato sei morti e tanti interrogativi.
Fino ad ora, si è giunti ad ipotizzare che gli studenti scomparsi siano finiti nelle mani del gruppo criminale Guerreros Unidos, per poi essere uccisi a colpi di pistola, ed infine bruciati. I resti sono stati poi raccolti in sacchi di plastica e gettati nel fiume San Juan. Quel che rimane, è stato inviato in Austria dove un team specializzato proverà ad esaminarlo tentando di risalire al DNA, sebbene si tratti di un’impresa che definire ardua è dire poco. Ma i genitori delle vittime non vogliono credere a questa versione, e da giorni e giorni partecipano con il resto del Paese a manifestazioni di protesta contro il governo (l’ultima a Città del Messico), chiedendo di riavere i loro ragazzi, che ritengono essere ancora vivi.
Su questi pochi dati di fatto, si può provare a ragionare, difficilmente per arrivare ad una limpida conclusione, ma per tentare almeno di fare un po’ di luce tra le tenebre. I presunti resti degli studenti desaparecidos sono stati individuati a seguito della confessione di tre membri della gang criminale già citata, che si sono fatti avanti per dichiarare la loro colpevolezza. Una responsabilità che, a quanto dicono, condividono con gli agenti della polizia locale, rea di aver consegnato i manifestanti alla banda. E dietro questi sicari e questi bracci violenti della legge, ci sarebbe addirittura il primo cittadino della città di Iguala, dove tutto ha avuto inizio. Il governo federale ha effettivamente rivelato l’esistenza di un legame tra la polizia municipale e il gruppo Guerrero Unidos, che potrebbe spiegare come siano finiti quegli studenti dalle manette delle autorità locali alle pistole del cartello. Secondo le testimonianze dei “guerrieri”, nutrivano il sospetto che tra i partecipanti alla protesta ci fossero infiltrati di una gang rivale. O, probabilmente, ai vertici della politica non andavano giù i disordini, e qualcuno ha ordinato di farli cessare, in un modo o nell’altro. In altre parole: sparizione forzata. Sta di fatto che la complicità della polizia nel delitto sembra quasi sicura, mentre il sindaco José Luis Abarca Velàzquez e la moglie, che nel frattempo si erano dati alla latitanza, sono stati arrestati, come pure è stato arrestato il segretario di pubblica sicurezza.
Sulla vicenda, però, c’è da sapere molto di più. Bisogna sottolineare, innanzitutto, che in Messico la rivolta contro la riforma dell’istruzione va avanti da più di un anno, con gli insegnanti che, nell’estate del 2013, scendevano in prima linea per le strade a protestare contro un disegno di legge che aggravava la precarietà del corpo docente. Per il tasso di frequenza scolastica, e il sistema dell’istruzione nel suo complesso, il Messico è tra gli ultimi Paesi al mondo. Soprattutto, il livello d’istruzione è parecchio basso nello Stato di Guerrero, che si distingue, purtroppo, anche per altri primati negativi: è qui che si trovano alcune delle regioni e dei comuni più poveri dell’intera Repubblica federale, con un conseguente tasso di emigrazione che raggiunge cifre considerevoli a causa della mancanza di occupazione.
Sulla potenza e sui tentacoli dei cartelli in Messico non c’è bisogno di dilungarsi molto, tant’è nota la presenza di associazioni criminali che si contendono il monopolio dei traffici illeciti e hanno scatenato una vera e propria guerra della droga che va avanti da decenni senza che se ne possa vedere la fine. Guerrero è uno dei Paesi che soffrono maggiormente per le conseguenze violente del conflitto, mentre i vari cartelli e le varie “famiglie” si sostituiscono sempre più ad uno Stato inerte e impotente, ma non di rado colluso.
Inoltre, le prime indagini sugli studenti desaparecidos hanno portato alla scoperta di altre fosse comuni, che nascondo chissà quali identità scomparse nel tentativo di seppellire insieme cadaveri e segreti. Già la parola desaparecidos ci ricorda una pratica tutta sudamericana tristemente nota, quella del rapimento e dell’assassinio in totale segretezza, ma con il consenso più o meno esplicito del governo, per mettere a tacere le forze dissidenti che causano troppe noie ai vertici del potere. Il sospetto che anche quei 43 giovani possano aver fatto una fine del genere, nonostante le speranze dei genitori, è molto alto.
Guerrero è soltanto uno dei focolai di disperazione che esplodono continuamente in Messico per poi precipitare in condizioni più disastrose di prima. Quelle fosse comuni stavano lì in attesa di sbucare fuori a ricordarci che troppo spesso la giustizia abbandona questi luoghi, e ad invocare che l’attenzione mondiale che si sta risvegliando in queste settimane, da New York, a Londra e a Parigi, da papa Francesco a Barack Obama, dalla Commissione nazionale per i diritti umani a Human Rights Watch, serva almeno a qualcosa. A restituire ai genitori i loro figli, vivi o morti che siano. A riportare la parola legalità nelle istituzioni e nelle sale del potere. A far sì che quel Nunca Mas non resti soltanto un’eco lontana nel tempo.