di Andrea Orlando
Il 18 aprile 2012 venne approvata definitivamente la riforma che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nella nostra Carta costituzionale. Il provvedimento fu proposto da Giulio Tremonti ministro dell’economia del centrodestra, ma approvato, dopo la caduta del Governo Berlusconi, con l’avvento del Governo Monti. Votarono a favore tutte le forze presenti in quel Parlamento ad eccezione dei parlamentari dell’Italia dei Valori.
La fase di forte instabilità politica del Governo centrodestra era divenuta palese nell’autunno del 2011, rendendo ancora più acuta la grave crisi economica e finanziaria che si abbatteva sul debito pubblico italiano. In quel momento di emergenza per il Paese, la modifica costituzionale fu approvata in soli sei mesi. Nessuno considerò necessario il ricorso al referendum confermativo.
A rifletterci oggi, è interessante sottolineare che quotidiani e programmi televisivi diedero pochissimo spazio a quello che stava accadendo in Parlamento.
Nessun appello pubblico, nessuna intervista indignata, nessuna reazione dei costituzionalisti che si erano pronunciati contro tutti i precedenti tentativi di modifica di modifica della Carta.
Eppure quella scelta intervenne condizionando nel profondo uno dei principi cardine della nostra Costituzione.
Lo stato sociale e quindi la natura sociale della repubblica che si era fondata in larga parte sulla capacità di indebitamento dello Stato. È vero che quella possibilità era stata in larga parte compromessa dal dissennato ricorso all’indebitamento, ma è altrettanto vero che i vincoli esterni rendevano questa ipotesi virtuale.
Che bisogno c’era allora di scriverlo in Costituzione?
La risposta che possiamo dare a posteriori è che si volle affermare in modo perpetuo (o comunque assai duraturo) un punto di vista ideologico. Il silenzio di quei giorni su un aspetto per nulla marginale non getta certamente una buona luce su coloro che oggi gridano alla torsione autoritaria. Infatti non può essere sottaciuto come quella scelta fu il frutto di una esplicita richiesta di una istituzione finanziaria quale condizione per intervenire a garanzia del nostro debito esposto ad enormi speculazioni finanziarie. Molti di quelli che allora tacquero su quel passaggio e sulla dinamica di quel passaggio sono oggi assai poco credibili quando paventano improbabili complotti finanziari che starebbero alla base dell’attuale revisione costituzionale.
Ma se richiamo nei particolari quella vicenda non è per stigmatizzare le contraddizioni altrui. Chi scrive sa di essere a sua volta in contraddizione per aver taciuto o almeno per non aver sottolineato con sufficiente forza i rischi e le implicazioni di quella scelta. Torno a quell’aprile del 2012 poiché, ritengo che quella vicenda costituisca un caso da manuale di un fenomeno che segna sempre più frequentemente le nostre democrazie e ne spiega, in parte, la crisi. Quel passaggio fotografa plasticamente la forza delle compatibilità finanziarie che si impongono su una democrazia che non riesce a decidere o lo fa troppo tardi. La politica, nel caso concreto, aveva eluso alcune riforme essenziali per la finanza pubblica. In primis la riforma della previdenza. Non si trattava di paura di perdere soltanto consenso, l’ostacolo era stato illusoriamente eluso per molto tempo perché la disomogeneità delle maggioranza che sosteneva il governo non aveva consentito di sciogliere questo ed altri noti che stringevano la nostra economia. A fronte di questo stallo la BCE si era sentita legittimata a “raccomandare” una serie di interventi atti a reagire alla crescita incontrollata dello spread. Una maggioranza divisa in grado di tenere in ostaggio l’Esecutivo aveva prodotto come effetto l’entrata in scena di un soggetto esterno al circuito democratico in grado di condizionarlo fino al punto di “raccomandare”, come già detto, una sostanziale modifica alla Carta Costituzionale. Mi serve l’esempio anche per affrontare un argomento spesso usato dai sostenitori del No: il rafforzamento dell’Esecutivo, il combinato disposto tra modifiche costituzionale e legge elettorale, l’accentramento di funzioni rispetto al titolo V segnerebbero, a loro avviso, una restrizione degli spazi di democrazia. Per chi sostiene questa tesi la dinamica istituzionale rappresenta una sfera impermeabile a fattori esterni. Secondo questa tesi i pesi e i contrappesi devono quindi essere distribuiti adeguatamente solo dentro questa sfera. Sfugge loro, a mio avviso, che in verità la farraginosità delle dinamiche istituzionali non lascia immutato l’oggetto delle decisioni. Appesantire, in poche parole, i processi decisionali, né abbiamo prova anche a livello europeo, fa emergere poteri capaci di svuotare l’ambito democratico. E questi poteri sono in primo luogo il potere finanziario e le compatibilità che lo presidiano nella dimensione sovranazionale.
Alla base di questo costante e ripetuto restringimento della centralità della guida politica ci sono almeno due fattori: la fragilità delle maggioranze, causato dalla perdita di forza e ruolo dei partiti, e la farraginosità delle procedure legislative, causata da un impianto Costituzionale che sin dalla sua nascita ha ricevuto dure critiche proprio su tale aspetto.
Difendere la democrazia, oggi, significa porsi il problema di come far realizzare il processo decisionale democratico prima dei fatti compiuti. E non parlo delle catastrofi naturali o delle guerre non volute. Nell’economia globale, in cui si abbreviano le distanze e si accelerano gli effetti delle crisi, fatti compiuti rischiano di essere le decisioni dei grandi soggetti economici e finanziari.
Una parte della risposta sta nella portata dimensionale delle decisioni.
È sempre più evidente che risposte nazionali a problemi globali rischiano di condannare la democrazia alla testimonianza.
Ma l’altro fattore che si pone negli stessi termini è quello dei tempi. Del tempo di risposta alle domande che provengono dalla società.
Su questi punti cruciali si gioca una parte importante del rapporto tra cittadini e democrazia.
È impossibile non vedere come la crisi della democrazia almeno in Occidente imponga una sua urgente riforma.
Non sono temi, pertanto, cari soltanto ad una logica efficientista. È, anzi, tutto il contrario. Si tratta della preoccupazione che l’indirizzo politico democratico possa rimanere alla periferia dei luoghi di decisione. Perché stiamo pure certi che il vuoto di decisione, nella realtà, non rimarrà tale e verrà occupato, sulla spinta dei mercati, da soggetti privi di una legittimazione democratica piena.
Risiede qui la prima ragione per un “Sì” convinto alla riforma: consentire un migliore funzionamento alla democrazia significa anzitutto difendere i suoi fondamenti costituzionali, che rimangono immutati nella prima parte della Carta.
Quanto detto mi porta al secondo motivo che vorrei sottolineare, e che è una risposta a coloro che poco responsabilmente sminuiscono il valore di questo referendum rispetto alle difficoltà economiche e sociali che, invece, sarebbero più urgenti e concrete rispetto ad astratte scelte di architettura costituzionale. E allora ricordo un dato che spesso si dimentica. Al termine della seconda Guerra mondiale, l’Italia ha saputo affrontare il tema della Costituzione quando il problema principale nel Paese era la ricostruzione delle case, delle strade, delle scuole e delle infrastrutture. Fu allora una scelta obbligata dall’uscita dal regime fascista, ma nondimeno fu una direzione che i Costituenti difesero saggiamente dall’attacco di coloro che già settant’anni fa usavano lo stesso argomento che oggi pericolosamente ritorna. Dobbiamo recuperare quella saggezza. Oggi più che mai in una democrazia la capacità di fare pesare i meno abbienti, i disoccupati, i settori più in difficoltà della società è strettamente legata alla funzionalità delle istituzioni. Se il sistema rimane ingessato su assetti farraginosi finirà inevitabilmente per privilegiare coloro che non hanno bisogno del voto, della partecipazione libera e della rappresentanza per fare sentire la propria voce.
Perciò, a coloro che intendono sminuire il valore di questo appuntamento referendario dobbiamo rispondere che le regole che la politica si dà non rappresentano un lusso per le classi illuminate del Paese.
Anche in un regime stabilmente democratico, esse riguardano tutti i cittadini. Sono queste regole che consentono di recepire le istanze dei più deboli e dei meno difesi da situazioni di privilegio. Sono queste regole, insomma, i binari su cui uguaglianza, solidarietà e diritti possono arrivare in tutte le stazioni del Paese.
La riforma Costituzionale su cui i cittadini saranno chiamati a votare rappresenta una risposta importante a queste domande.
Essa si poggia su tre pilastri: il rafforzamento della partecipazione dei cittadini al processo democratico e legislativo, la semplificazione dell’iter legislativo, la ricentralizzazione di funzioni strategiche in capo allo Stato.
Per quanto riguarda il primo aspetto viene reso più concreto lo strumento delle leggi di iniziativa popolare, sin qui solo formalmente esistente, ma non reso concreto in assenza di vincoli sul Parlamento. La riforma rende obbligatorio l’esame del testo presentato dai cittadini su cui siano state raccolte 150.000 firme. Viene introdotto il referendum propositivo, novità assoluta per il nostro ordinamento costituzionale. Viene favorito lo strumento del referendum abrogativo, rendendo più facile il raggiungimento del quorum, infatti se i proponenti raccoglieranno almeno 800.000 firme sarà sufficiente per il raggiungimento del quorum la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni per la Camera dei deputati. Si tratta di tre punti qualificanti della riforma, di cui poco si dibatte, ma che credo favoriranno da un lato l’emergere dalla società civile di proposte che rispondono a bisogni vissuti nel Paese, dall’altro ridaranno smalto allo strumento del referendum in crisi da più di un ventennio.
La semplificazione del processo legislativo rappresenta, come detto, uno dei pilastri della riforma. Il bicameralismo paritario, difficile compromesso raggiunto in Costituente, ha sin da subito rappresentato uno degli elementi più criticati della nostra Carta. Già a partire dagli anni cinquanta da più parti sono stati evidenziati i limiti di due Camere chiamate a svolgere gli stessi compiti e di un iter legis appesantito dalle navette tra le due Camere. Si tratta quasi di un unicum nell’orizzonte costituzionale europeo, la maggioranza dei Paesi ad assetto bicamerale, soprattutto nelle democrazie più evolute, ha compiuto la scelta di differenziare il ruolo dei due rami del Parlamento, con una Camera bassa in cui risiede il potere legislativo e di fiducia al governo e una Camera alta chiamata a svolgere un ruolo di controllo o di rappresentanza dei livelli di governo territoriali. L’opzione scelta dalla riforma italiana va in questo senso sia per ragioni storiche, recuperando una delle proposte emerse in costituente, cioè quella di una Camera delle Regioni, sia per ragioni di grande attualità, infatti a partire dagli anni settanta le Regioni hanno assunto un ruolo sempre più importante nel modello di governance del nostro Paese assolvendo a funzioni centrali per i cittadini.
La riforma del processo legislativo risponde quindi a questa esigenza e al tempo stesso semplifica, accelera e rende più trasparenti le decisioni democratiche. Sarà la Camera infatti ad avere l’ultima parola su tutte leggi, rimarranno di competenze di entrambe le camere solo alcune leggi bicamerali, il Senato assumerà un ruolo di controllo sulle politiche pubbliche, sulle politiche comunitarie e sul rapporto tra Stato centrale ed enti territoriali. Sino ad oggi nel nostro ordinamento costituzionale non sarebbe stato possibile avere due maggioranze diverse nelle due camere, poiché ciò avrebbe comportato un blocco del sistema e la necessità del ricorso alle urne. Nel nuovo assetto il Senato potrà invece avere una maggioranza diversa senza che ciò si risolva in uno stallo per il sistema. In questo senso, penso soprattutto ai critici della riforma, con il nuovo assetto non si riducono i pesi e i contrappesi, anzi né nascono di nuovi, così come diventa più difficile per le maggioranze decidere da sole sulle figure di garanzia, come il Presidente della Repubblica e i giudici della Corte Costituzionale.
Ci sono degli altri aspetti che sostengono le ragioni del sì in merito al processo legislativo. La nuova modalità di formazione delle leggi contribuirà non solo a tempi più rapidi necessari in un modo in cui cambiamenti sono sempre più tempestivi, ma renderà più trasparente il processo legislativo. La continua mediazione sulle leggi, la ricerca di ripetuti compromessi nei vari passaggi tra le Camere ha contribuito sin qui a peggiorare la qualità delle leggi e sottoporre il processo legislativo a più incursioni degli interessi organizzati. Una pressione che esiste nei fatti sul processo legislativo, che è fisiologica, che a mio a viso va regolata meglio con una legge sulle lobby, ma che nel bicameralismo paritario trovava più di un varco alle pressioni.
La riforma segna anche la fine dell’utilizzo surrettizio del combinato disposto tra decreto legge e voto di fiducia. Soprattutto negli ultimi 25 anni, al di là del colore politico del Governo, questa è diventata la modalità normale degli esecutivi per realizzare in tempi certi il proprio programma di governo. Non è accaduto per capriccio, ma proprio l’assenza di una riforma costituzionale auspicata almeno da tre decenni, ha prodotto tale situazione. Ogni sistema in assenza dei cambiamenti necessari trova al proprio interno i rimedi per assolvere alle proprie funzioni. Lo fa distorcendo gli strumenti a sua disposizione. È ciò che è avvenuto in questo caso. Se prevarrà il sì il Parlamento acquisirà quindi una nuova centralità, con una sola Camera che darà la fiducia e con l’esecutivo che avrà a disposizione una corsia preferenziale per i progetti di legge che qualificano il programma di governo. Esecutivo e Parlamento escono entrambi rafforzati dalla riforma. A perdere peso saranno i piccoli gruppi di blocco capaci di ricattare l’esecutivo e molto spesso portatori di interessi particolarissimi.
Vi è infine il terzo pilastro, la riforma del titolo V che rimedia ad errori del recente passato in cui si è inseguito un modello federalismo che ha indebolito il sistema Paese nella capacità di assumere indirizzi strategici di carattere nazionale. Questo aspetto della riforma punta all’eliminazione dei conflitti che la riforma del 2001 ha comportato e assegna allo Stato centrale la possibilità, come nella Costituzione Tedesca, di intervenire su leggi di competenza regionale quando esse ledano l’interesse nazionale.
I tre pilastri che ho illustrato rappresentano gli aspetti fondamentali della modifica costituzionale su cui voteremo in autunno. Contengono buone ragioni per un sì convito, poiché costituiscono nel complesso punti di modernizzazione del Paese e di rinvigorimento della democrazia necessari per rilanciare l’Italia. La riforma della Costituzione non risolve certo i problemi dell’Italia, ma Istituzioni che funzionano meglio rendono più semplice la possibilità dei cittadini di vedere raccolte dalla politica bisogni e aspirazioni. Questo serve certamente di più ai più deboli, a coloro i quali non avendo forza possono trovarla solo in una democrazia in grado di assolvere pienamente al proprio ruolo.
Andrea Orlando
Ministro della Giustizia