Sta finendo in queste ore la decima campagna presidenziale nella storia della Quinta Repubblica francese. I fatti degli Champs Elysées la hanno troncata anzitempo, inducendo alcuni candidati ad annullare gli ultimi comizi.
Più che di pronostici, ritratti o aneddotica è tempo di bilanci e analisi d’insieme. Non dobbiamo illuderci che uno slogan, una petite phrase, come si dice da quelle parti, o una abile prestazione comunicativa possano fare davvero la differenza. E con un briciolo di cinismo dovremmo anche smettere di pensare che i programmi elettorali vengano davvero letti da un numero significativo di elettori, incidano realmente sulla scelta di voto o siano veramente presi sul serio dai candidati stessi.
Come sempre resta un grande rumore di fondo. La spettacolarizzazione pittoresca di queste settimane ha messo in mostra la voglia di Jean Lassalle, deputato da tre legislature, di rivendicare le proprie origini di figlio di un pastore (di greggi, non di anime). E poi il battitore libero anti-finanza Jacques Cheminade, alla terza candidatura, i due alti funzionari e sovranisti François Asselineau e Nicolas Dupont-Aignan. Al duo storico di trozkisti Krivine-Laguiller si è sostituito da qualche tempo quello composto da Arthaud e Poutou. Quest’ultimo, operaio lodato e biasimato per l’abbigliamento casual sfoggiato in televisione, è subentrato dal 2012 al postino Besancenot come leader del Nuovo partito anticapitalista.
I videogiochi e gli ologrammi di Mélenchon, la sua capacità di suscitare entusiasmi di sinistra oltre i confini dell’esagono hanno fatto da contraltare al lato oscuro degli scandali in cui soprattutto Fillon e Le Pen sono incappati per il fatto di essere coinvolti in vicende giudiziarie di malversazione. Macron, invece, è stato qualche settimana fa lambito da accuse, poi mai più precisate, di essere al soldo della finanza internazionale e da allusioni su una presunta doppia vita. Di certo, le dichiarazioni patrimoniali pubblicate dai candidati fanno sì che difficilmente il leader di En Marche possa essere percepito come il portabandiera della sinistra economica. Abbandonato da Valls e Hollande, Hamon annaspa come candidato di risulta, emanazione della sinistra di un Ps che nei fatti si avvia alla dissolvenza.
Come di consueto abbiamo assistito a un caravanserraglio della democrazia di investitura che mescola serio e faceto, e che ai molti tratti di farsa ha visto sovrapporsi un velo di tragedia dopo gli spari degli Champs Elysées, arrivati nella sera dell’ultima apparizione televisiva dei candidati.
Quelle del 23 aprile e 7 maggio sono le elezioni da cui uscirà il nome dell’ottavo presidente della Quinta repubblica. Come è noto Hollande non si è presentato, cosa che non era mai successa a un capo dello Stato al primo mandato se si eccettua il caso di Pompidou, deceduto durante il settennato. Molti sono i candidati, undici in totale. Non è un record: nel 1974 e nel 2007 furono in dodici a sfidarsi, mentre risale al 2002 il massimo storico di aspiranti all’Eliseo, sedici. Quella frammentazione fu uno dei fattori alla base dell’imprevisto accesso di Jean-Marie Le Pen al ballottaggio.
Tuttavia la dinamica elettorale del 23 aprile 2017 sembra essere insolita. Ammesso che i sondaggi abbiano un reale valore predittivo, le rilevazioni dell’ultima settimana [1] delineano un distacco amplissimo, superiore ai 10 punti, tra il quartetto di testa (Le Pen, Macron, Mélechon e Fillon) e i restanti sette inseguitori, Hamon in primis. Inoltre, all’interno di questo gruppo di testa il divario tra il primo e il quarto, ossia tra Macron e Mélenchon, è stimato in soli 6 punti (25 a 19). Insomma, vi sono tanti candidati che contano e possono ambire al secondo turno, posizionati l’uno a un’incollatura dall’altro e nettamente staccati dal resto dei “presidentabili”. Un esito vagamente paragonabile, in termini di vicinanza tra i candidati più pesanti si è materializzato solo nel 1995, quando Jospin concluse il primo turno al 23,3 e Jean-Marie Le Pen raggiunse il 15 per cento. Tra loro si posizionarono Balladur, al 18,6 e Chirac, poi vincitore, al 20,8.
La sospensione del giudizio sull’affidabilità dei sondaggi non è solo un espediente da analista cauto. Nel 2012 una rilevazione effettuata con tempistica e campione simili a quella sopra citato sovrastimarono Mélenchon di oltre due punti (13,5 contro il risultato effettivo che sarà 11,1) e sottovalutarono Marine Le Pen in misura quasi analoga (16 contro 17,9). In quel caso si trattava di candidati di seconda fila, staccati di oltre 10 punti dal binomio Hollande-Sarkozy che accederà al ballottaggio. Nel 2017, invece, gli esponenti “radicali” non combattono una sfida di contorno ma sembrano coinvolti nella prima fascia della competizione insieme ai “liberali” Fillon (conservatore) e Macron (progressista). La quadriglia bipolare di un tempo si riformula in una insolita quadriglia multipolare.
Difficile dire se ci siano stime sondaggistiche gonfiate in favore dell’uno o dell’altro. In questo senso bisogna ragionare su due livelli: quello statistico della distorsione involontaria, e quello più politico, di una distorsione che si potrebbe definire dolosa. Sul piano statistico non abbiamo precedenti specifici per Macron o recenti esperienze analoghe di candidature atipiche. Al contrario ne abbiamo per Le Pen e, come detto, Mélenchon, e in ogni caso per la destra e la sinistra prese come “universali”.
Quello che si sa, in genere, è che i candidati di destra, soprattutto, radicale ed estrema, tendono a essere sottostimati. Il contrario capita, di solito, con quelli di sinistra, si veda Mélenchon nel 2012. Il motivo è intuitivo e sta nel diverso grado di “confessabilità” accettabilità sociale di un certo tipo di voto. Quello per la sinistra, anche radicale, di solito ha un’aura più politicamente corretta di quello per i conservatori. Proprio per questo i sondaggisti adottano da tempo dei coefficienti di correzione delle stime campionarie, applicandoli anche al FN. Questa abitudine, sommata alla maggiore presentabilità mediatica di Marine Le Pen rispetto a suo padre, fa sì che il nuovo FN tenda a non essere più sottostimato, come avveniva a Jean-Marie, ma più o meno pesati per quel che valgono, almeno dal 2014 in poi. Ciò considerato, non è detto che i dati in ribasso per Le Pen in questi giorni siano spiegabili con ragioni del secondo tipo (quelle “dolose” di cui si dirà) anche se sembrano discostarsi dai risultati degli ultimi anni.
Sul tema del FN e della sua percepita ascesa verso il potere occorre dire che il partito di Le Pen è risultato per tre volte consecutive il più votato su scala nazionale, ma lo ha fatto in elezioni di second’ordine (europee, dipartimentali e regionali) con livelli di affluenza attorno al 50 per cento o addirittura meno. Alle europee del 2014 ha ottenuto un numero di voti pari al 10 per cento degli aventi diritto. Alle regionali del dicembre 2015 ha raggiunto il massimo storico in termini di voti, ma con livelli di consenso comunque insufficienti a vincere una elezione come la presidenziale, l’unica che i francesi prendono davvero sul serio e a cui partecipano con tassi superiori al 70 per cento.
Su Macron, alla prima candidatura, non ci sono precedenti. La sua candidatura e quella di Hamon rappresentano nell’insieme l’elettorato che nel passato recente ha avuto i suoi punti di riferimento in Bayrou (che non si è presentato appositamente) e nel candidato del Ps. Quindi, una stima complessiva del 32,5 per cento come quella evidenziata nel sondaggio prima menzionato non sembrerebbe particolarmente gonfiata, se guardiamo all’area del centro-centrosinistra nel suo insieme e se consideriamo che il candidato verde ha scelto di non presentarsi.
Qui entra in gioco il secondo livello. Sul fatto che il mainstream politico, economico e mediatico esprima una preferenza per Macron sia nei confronti di Hamon e Mélenchon che di Marine Le Pen sembrano esserci pochi dubbi. E spesso i desideri dei committenti hanno un certo peso nella confezione dei risultati. Che si possa puntare su Macron come baluardo di una Francia presentabile e rassicurante, per quanto espressione di un blairismo di ritorno, pare verosimile.
Buona fede a parte, sulla corrispondenza tra sondaggi e risultati incidono altre variabili più o meno impazzite. L’attentato degli Champs Elysées può produrre effetti positivi per Le Pen e Fillon, candidati dell’”ordine” mentre può avere contraccolpi negativi su Macron e Mélenchon, candidati dell’ “apertura”.
In secondo luogo, il livello della mobilitazione può essere l’ago della bilancia, viste le distanze apparentemente ridotte tra i front runners. Una bassa partecipazione può favorire Fillon e Macron, preferiti da un elettorato più istruito, abbiente e anziano, propenso a recarsi al seggio in ogni caso, soprattutto in elezioni importanti come le presidenziali. Una affluenza più alta potrebbe invece sostenere le ambizioni di Le Pen e Mélenchon, il cui elettorato potenziale è più giovane e periferico socialmente. Al tempo stesso è utile ricordare che quando il tasso di affluenza è stato relativamente più basso, nel 1969 (77,6 per cento) e nel 2002 (71,6), la sinistra è rimasta fuori dal ballottaggio e si è avuto l’exploit Le Pen.
Bisogna infine considerare che Macron e Fillon occupano una posizione più centrale e possono intercettare voti in libera uscita provenienti sia da destra che da sinistra. La percezione del voto ad Hamon come ormai inutile fa sì che i suoi consensi potenziali diventino oggetto di spartizione tra Mélenchon, a sinistra, e Macron, a destra.
In ogni caso, c’è una ragione che rende queste presidenziali atipiche e potenzialmente fatidiche, anche in vista delle successive legislative di giugno. Viste le condizioni in cui versa il socialismo francese una conquista dell’Eliseo da parte di Fillon garantirebbe con tutta probabilità l’effetto di trascinamento delle presidenziali sulle legislative, meccanica a cui si assiste sin dal 2002 grazie all’inversione del calendario elettorale e alla riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, e quindi alla sua sincronia temporale con quello dell’Assemblea nazionale. In altre parole, gli elettori sarebbero indotti da allora ad agevolare la formazione di una maggioranza parlamentare “di conferma”, dunque di marca neogollista, dei Républicain di cui Fillon è espressione.
Ma in tutti gli altri casi, ossia con un successo di Macron, Le Pen o Mélenchon, il capo dello Stato sarebbe privo di un partito dotato di una capillare articolazione notabilare e in grado di ottenere alle legislative un numero di seggi sufficiente a garantire il sostegno a un governo. Il che corrisponderebbe a una svolta nella storia della Quinta repubblica, contrassegnata dal connubio tra personalizzazione del potere presidenziale e riduzione dei partiti, o delle famiglie politiche, come i francesi amano chiamarle, a comitati elettorali e cerniere centro-periferia a sostegno delle ambizioni presidenziali dei leader. Una eccezione parziale a questo schema si può rilevare nel Giscard d’Estaing del 1974, che era però sostenuto da un arcipelago di formazioni e notabili ascrivibili al liberalismo orleanista e ben collegati all’Udr postgollista.
Macron ha intrattenuto rapporti effimeri con il Ps e oggi ha un movimento personale, En Marche, di recente creazione e inconsistente sul piano organizzativo. Marine Le Pen ha un partito dal crescente successo di opinione e dall’elettorato sempre più ampio e profondo, dal punto di vista geografico e socio-demografico. Tuttavia, il FN continua a essere carente sul versante organizzativo e del personale politico, tant’è che spesso fatica a presentarsi in tutti i collegi e ha, ad oggi, solo due deputati. Mélenchon rappresenta il Front de Gauche e all’interno di questo il Parti de Gauche, che è una sua proiezione non molto strutturata e non sempre in sintonia con lo storico Pcf, che fornisce invece la spina dorsale al FdG grazie a un elevato numero di amministratori locali. A causa del sistema maggioritario a doppio turno il suo contingente parlamentare è però esiguo: solo 15 deputati su un totale di 577.
Ciò implica che la coabitazione, che sembrava finita dopo le riforme del 2000-2001, tornerebbe: soft nel caso di Macron (perché i socialisti lo sostengono già), hard nel caso di Marine Le Pen o Mélenchon. In ogni caso potrebbe innescarsi una diaspora nella sinistra se dovessero vincere Mélenchon, al centro Macron, a destra se dovesse vincere Le Pen. Ciò potrebbe voler dire due cose. O la Quinta repubblica torna a funzionare come un semipresidenzialismo, con un esecutivo a due teste. Oppure si apre una breccia verso la Sesta repubblica, ipotizzata in passato dal costituzionalista Bastien François e assunta come cavallo di battaglia da Mélenchon in questa campagna.
Un risultato atipico delle presidenziali potrebbe infatti produrre una frattura politica profonda, in grado di originare un momento costituente. Immaginiamo, con una stima per eccesso, che Hamon arrivi al 10 per cento e Fillon al 20. I candidati socialista e gollista, emanazione delle due forze politiche storiche della Quinta repubblica, o almeno della sua fase secolarizzata che si apre dopo la morte di de Gaulle, avrebbero complessivamente solo il 30 per cento dei voti. Sarebbe il risultato peggiore di sempre per le due famiglie politiche, prese singolarmente. Ma sarebbe anche il peggior risultato aggregato mai ottenuto dai candidati delle forze centrali. Se si prendono in considerazione, oltre a PS e UNR-UDR-RPR-UMP, anche le candidature “terze” di centrodestra come quelle di Giscard (1974 e 1981), Barre (1988), Balladur (1995), Bayrou, Boutin e Madelin (2002) il confronto è impietoso, visto che il dato non è sceso mai al di sotto del 48 per cento. Se si considerano solo il candidato socialista e quello neogollista, il minimo storico è stato il 36 per cento circa delle iperframmentate presidenziali 2002. Con una vittoria di Le Pen, Macron o Mélenchon non si andrebbe solo verso un nuovo sistema politico, ma anche verso una crisi di regime che metterebbe alla prova l’assetto della Quinta repubblica.
[1] Sondaggio Harris interactive del 19 aprile, su un campione di 3064 persone e con un margine d’errore statistico compreso tra 1,1 e 1,7 per cento.
NICOLA GENGA (CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO)