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IL NOME DI DIO È MISERICORDIA, ALL’ISTITUTO ATTILIO ROMANÒ IL DIBATTITO SUL LIBRO DI PAPA FRANCESCO

Il dibattito sul libro nato da una conversazione tra papa Francesco e il vaticanista Andrea Tornielli prende vita in una scuola di Miano, a Napoli, l’Istituto Superiore Attilio Romanò, che deve il nome ad una delle vittime innocenti di camorra. Un gruppetto di rappresentanza degli alunni di questa scuola legge con passione e convinzione alcuni brani estratti dal volume, propone ai presenti la musica di De André e partecipa alla conversazione. È significativo più che mai che sia proprio una scuola ad ospitare un evento del genere, quasi a ricordare che nessun luogo è e dev’essere deputato alla riflessione più della scuola stessa.

E Il nome di Dio è misericordia è proprio un’occasione di riflessione, prima di ogni altra cosa, sulla spiritualità individuale, sulle istanze di rinnovamento della Chiesa e sui gesti di carità che coinvolgono ognuno di noi in quanto esseri umani, prima ancora che cattolici o altro. A moderare la discussione il gesuita Domenico Pizzuti: «La misericordia è un denominativo che deve diventare connotativo della Chiesa. Non è solo questione di spiritualità, ma si tratta di un’azione razionale che risponde ad uno scopo, la riforma della Chiesa, che risponde ad un’esigenza che proviene proprio dall’interno della Chiesa stessa.

Per Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda, «in un libro come questo ci sono non solo concetti edificanti e consolatori, Bergoglio ci sta dicendo che la misericordia è il nostro Monte Bianco, è il nostro Everest da scalare. E noi siamo contenti di scalare questa alte vette sapendo che è un sacrificio, che è dura?». È questa, in fondo, la questione cruciale: quanto siamo consapevoli del significato della parola misericordia, e quanto siamo disposti davvero a trasformare in azioni concrete ciò che è soltanto una parola astratta?

«Anche in questo libro, con le sue riflessioni su misericordia e compassione e sul tema della giustizia terrena, continua in una direzione ostinata e contraria, a ripetere che la Chiesa non è al mondo per condannare. Continua a dirci che c’è bisogno di compassione oggi per vincere la globalizzazione dell’indifferenza.  Queste sue affermazioni, queste sue risposte, illuminano il cuore di ogni uomo di buona volontà».

La tragedia è che tanti uomini di chiesa non pensano di aver fatto scivolate, non restano umili e quindi rischiano di non capire e compatire le mancanze del prossimo. Non è un caso che il popolo di Dio spesso si trova di fronte a questi brutti esempi in cui prevale l’interesse, la poca misericordia e la chiusura».

Adriana Valerio, storica e teologa italiana, esordisce affermando che «è importante recuperare una dimensione della spiritualità che noi abbiamo perduto, specialmente nella Chiesa cattolica. Faccio riferimento alle tre parabole della misericordia, che si trovano nel Vangelo di Luca, e che noi normalmente riconosciamo come la parabola della pecora smarrita, della moneta perduta e del figliol prodigo, come se l’attenzione fosse per la pecora, la moneta e il figlio. In realtà l’attenzione è su Dio. Gesù ci vuole parlare dell’identità di questo Dio misericordioso, che è poi il modello che noi dobbiamo avere come riferimento. Ed è importante, perciò, avere anche un’immagine diversa da quella che ci viene tradizionalmente tramandata, di un Dio severo, che punisce, che condanna, che scruta. Il buon pastore non può tollerare che qualcuno si perda, perché niente è irrecuperabile». E ricordando come il vocabolo misericordia in ebraico abbia la stessa radice della parola utero, Valerio riflette che «solo un Dio materno ci può salvare, perché la madre è colei che accoglie e non tollera che ci si perda».

 

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