Il calcio italiano si prepara a ripartire, ma senza il suo dodicesimo uomo in campo: la tifoseria. L’infortunio (se così possiamo definirlo) Covid-19, ha colpito i supporter di tutto il mondo, costringendoli ad uno stop forzato, i cui i tempi di recupero sono ancora sconosciuti.
Dunque si gioca, ma a porte chiuse, come è già accaduto in Germania, dove nel weekend tra il 16 e il 18 maggio, la Bundesliga (campionato tedesco), ha ripreso la competizione prima delle altre nazioni, tra il vuoto implacabile delle gradinate. Niente cori, inni o coreografie di curva, ma soltanto l’eco dei continui richiami degli allenatori alle proprie squadre, incapaci di colmare quel silenzio assordante degli stadi. Una ripresa dal sapore amaro per ogni appassionato, costretto a contenere la propria esultanza tra le quattro mura di un’abitazione troppo piccola per una gioia così grande come quella di una rete segnata.
“Giocare senza tifosi è come ballare senza musica”, diceva il giornalista uruguaiano Eduardo Galeano; “Senza pubblico per me il calcio non ha senso”, dichiara invece Zdenek Zeman. Ma allora sarebbe davvero giusto ricominciare, seguendo il modello tedesco? Forse sì, forse no. Nel dubbio, però, alcuni tifosi non smettono di dar voce al proprio pensiero, come dimostrato dagli Ultras di Roma e Genoa, che attraverso l’esposizione (questa volta fuori dagli spalti) di striscioni, hanno espresso la loro disapprovazione nei confronti della ripartenza del campionato di Seria A: “Stop football”, o ancora “Questa è la nostra mentalità, il gioco finisce qua”.
Nell’incertezza di una possibile ripartenza, di cui si attendono notizie definitive dopo la riunione del 28 maggio, proclamata dal Ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, con il presidente della Figc, Gabriele Gravina, e quello della Lega, Paolo Dal Pino, resta comunque indiscussa la futura assenza dei tifosi negli stadi, obbligati a sostenere la propria squadra del cuore tramite gli schermi dei televisori, fino a data da destinarsi.
Maria Pia Russo