Dalla indovinata citazione del titolo, che riprende i celebri versi del canto terzo del Purgatorio della Divina Commedia in cui Dante Alighieri presta le parole a Manfredi di Svevia, fino al susseguirsi dei racconti, tutta la raccolta vanta una scorrevolezza e armonica disposizione dei testi a cui si accompagna come ospite d’eccezione, eppur protagonista, la linea guida del libro: una ritratto di Benevento e paesi limitrofi che non si ferma alla mera descrizione paesaggistica (che pur per bellezza potrebbe fare storia a sé), ma che lega questa agli usi e costumi di personaggi irripetibili.
Così Benevento è “una strana città, viziosa e bacchettona allo stesso tempo” (da L’epistolario di Donna Titina), dove “il voi è una forma di espressione che non smette mai di essere usata” (da Il torneo della nostalgia) e Pontelandolfo è il paese dove tutte le donne sono “prosperose, piene, ridenti e insolenti” (da C’era una volta il natale), almeno finché non sopraggiunge il mercato dei panni usati di Resina e la pacchiana diventa cittadina e signora. Dal bambino conciato male da una mamma troppo pratica e razionale (in Mia mamma mi voleva morto), all’appassionato di vino che instaura uno strano rapporto con la Madonna delle grazie (in La madre delle Grazie), all’investigatore di L’amore al tempo dello stalking fino all’allenatore del Benevento calcio 1977 in Don Lillino e Chiricallo, è tutto un incasellarsi di soggetti che incarnano con paradigmi e originalità il carattere vivo e pulsante di un popolo.
Una panoramica che non poteva non chiudersi con l’immancabile presenza delle streghe in Dacci oggi il nostro Sabba quotidiano: “- Perché mi hai portato qui a vederlo? – Perché tu non dimentichi mai da dove vieni, e perché non dimentichi mai che questa è la tua città”, una frase che da sola conduce il lettore al senso di questi scritti.
Nel brevissimo excursus che mi ha visto citare uno per uno i racconti, ne ho (volutamente) mancato uno. Si tratta di Dalla Valle Caudina al Vaticano, il racconto autobiografico di Samuele Ciambriello che, posto ad apertura dell’opera, la inaugura perfettamente, conferendole quello status di autenticità ed esperienza vissuta che migliora l’empatia tra lettore e scrittore, favorendone il rapporto quasi che l’autore ti concedesse la confidenza di metterti a tuo agio nei suoi ricordi, pensieri e sentimenti. Una qualità, questa, che, avendo conosciuto Samuele Ciambriello, gli riconosciamo come uomo, oltre che come scrittore.
La bellezza, infatti, di questo racconto è che esso, non solo ci riporta a quei tempi e quei luoghi attraverso il filtro degli occhi di chi ne ha fatto esperienza, ma ci regala carattere e memorie di un uomo, le cui parole sono tutte intrise della stessa passionalità che ancora oggi lo anima. Nel racconto è un bambino ma è già completamente formata in lui quella sete di cambiamento, di progetto, di evasione dalle consuetudini comuni che lo hanno spinto, ad esempio, a scegliere la scuola della Centrale piuttosto che quella più comoda perché vicina del suo paese, per dare a se stesso e ai suoi amici e compagni un’opportunità maggiore, contro ogni limite e supponenza familiare e paesana: “Dove inizia la libertà? Per me è cominciata ad Airola”.
Un’avventura umana e cristiana, come lui stesso la definisce, “un’impresa capace di ispirare” (ed effettivamente lo fa) chi, pur superati gli anni giovanili, non riesce ancora a distaccarsi da abitudini e ristrettezze, poiché tutti noi – come sosteneva Kant – abbiamo bisogno di superare quello stato di minorità che non ci permette di usufruire del nostro intelletto senza la guida di altri. Un illuminismo che per Ciambriello è “avere gambe per camminare”, è andare oltre ma sommessamente, come è solito dire.