Che sia un viaggio in macchina — «quando mi viene un dubbio mi metto al volante. Che faccio con questa canzone? Ah, guidiamo un po’…» — o quello accidentato della vita, Bruce Springsteen è sempre in movimento. «Quando sei giovane, è tutta una questione di voglio andare dove voglio, fare quello che voglio, essere quello che voglio. È bello quando hai 20 anni, ma se te lo porti dietro troppo diventa un limite. Quando invecchi cerchi una definizione più larga di libertà, qualcosa che includa il partner, la famiglia, la comunità, la vita pubblica. Invecchi e hai bisogno di queste cose per avere una vita appagante. Il disco e il film sono proprio la storia di quel viaggio da una parte all’altra, la tensione che esiste fra libertà individuale e relazioni comunitarie. È un percorso che tutti dobbiamo affrontare», racconta il Boss, a “7”, camicia di jeans aperta sul petto, voce roca e gli occhi che si socchiudono quasi a cercare le parole giuste.Ecco qunto evidenziato da Linkabile:
Il film e disco di cui parla sono Western Stars, il suo ultimo progetto. Canzoni che spesso fanno l’autostop a bordo di motori più o meno scassati per raccontare storie di vita. «In fondo sono 19 album che scrivo di macchine», scherza lui. In queste c’è l’uomo che guida verso lo scassato “Moonlight Motel” mentre la memoria lo riporta a una vita che non era ancora «bollette e bambini». Lo stuntman di Drive Fast, lo si intuisce dal titolo, è uno a cui piace spingere il piede sull’acceleratore. Si spengono le luci e subito, nelle prime inquadrature, ecco la mano del Boss che stringe un volante. Si viaggia, con un pickup azzurro, verso il deserto del Mojave, sud della California, fra polvere e cavalli selvaggi, ricordi e filmini d’annata che raccontano un’America che forse non c’è più. Il racconto per immagini di cui il rocker firma la regia con Thom Zimny è un film-documentario costruito alternando riflessioni e racconti del Boss a una performance acustica in cui con la moglie Patti, una band e un’orchestra ha reinciso dal vivo le canzoni dell’album. Tutto registrato nel centenario fienile della sua Stone Hill Farm a Colts Neck, nel New Jersey. L’autobiografia Born to Run del 2016, quindi lo spettacolo a Broadway che mischiava canzoni e monologhi personali, e ora il docu-film.
Non le bastano più i tre minuti della forma canzone per sfogare la sua creatività? Ci dobbiamo aspettare un lungometraggio o un romanzo in futuro?
«Non credo (ride). La prossima cosa che ho in programma è tornare al mio lavoro quotidiano: suonare un po’ con la band (che lo scorso giugno ha riunito a sorpresa, ndr.) , venire a trovare i miei fan italiani e mettere in piedi dei bei concerti. Nel prossimo anno lavorerò su questo».
L’esigenza di raccontarsi in modo diverso da dove è venuta?
«Cose che capitano… Sono sempre alla ricerca di un modo fresco di raccontare storie. Anche l’età ha qualcosa a che vedere con questo. Arrivi a un momento in cui inizi a tirare le somme di quello che hai imparato e di quello che hai visto nella vita. Il libro ha aperto questo processo; il teatro era un’estensione della biografia; il film va oltre quei due aspetti. Questi tre lavori sono il riassunto della mia vita fino a questo punto».
Sono appena arrivati i 70 anni, li ha compiuti il 23 settembre…
«Sono uno pieno di talenti… Scrivo libri, spettacoli teatrali per Broadway e adesso un film. Il prossimo passo sarà fare l’astronauta. Vi farò sapere come va».
Nei racconti il ricordo dei momenti bui della sua vita è sempre pronto a emergere. «Siamo tutti rotti, fisicamente ed emotivamente. Nessuno ne esce intatto», recita nel film. In tutta la sua carriera però ha avuto sempre il sorriso stampato in faccia. Quando il suo mondo interiore crollava, era difficile fare quello sempre allegro e pensare che in quel suo sorriso i fan riponevano una fiducia incondizionata?
«Ho tenuto separate la mia vita lavorativa e quella personale. È curioso pensare che i periodi di depressione che ho avuto non abbiano mai influenzato il lavoro. Riuscivo a darci dentro e essere creativo. Scrivevo canzoni e incorporavo in quello che stavo scrivendo qualcosa di quello che stavo passando, trasformandolo però in positivo. È stata una fortuna. Non ho rimpianti. Non mi sono mai lamentato per quei momentacci. Del resto, ognuno di noi ci passa. È parte della vita ed è anche quello che rende più ricchi e godibili i momenti belli».
Il fatto che il pubblico fosse sempre lì a sostenerla è stato di aiuto? Ha sentito la spinta?
«Quando attraversi un momento difficile è dura ricordare che ce ne sono stati di buoni, ma devi andare avanti, chiedere aiuto se hai bisogno, e sperare di trovarlo. Cerco però di non pensare troppo alla mia persona pubblica… Chi mi segue si rivolge a me per il divertimento e l’intrattenimento. Spero anche di essere di ispirazione in qualche modo. E sono felice di avere quel ruolo nelle loro vite».
Parlava prima dei fan italiani. Il suo manager, Jon Landau, una volta ha detto che il suo concerto milanese del 2003 a San Siro, quello sotto il diluvio, è stato uno dei migliori della sua carriera… Un momento di comunione rock: il pubblico sul prato inzuppato e lei pure, visto che si spingeva ai limiti del palco, oltre il riparo del tetto.
«Vero… È stato indimenticabile. Uno dei più belli. Ci ripenso spesso».
A Milano si è aperto il dibattito: c’è un progetto per demolire San Siro e costruire un nuovo stadio...
«Veramente? Sarebbe tremendo. Un peccato. È un posto bellissimo. Per come è stato costruito è unico: il lato più lontano dal palco non è mai così lontano. Mentre suoni, è come se avessi di fronte un muro di umanità e ti torna addosso un entusiasmo enorme. Ogni edificio ha un’anima, una vita spirituale che non puoi mai dare per scontata. E fino a che sono sicuri, mi piace suonarci dentro. Le nuove costruzioni non ce l’hanno quell’anima».
Come è nato il progetto Western Stars ?
«C’è voluto molto tempo per realizzare la versione in studio. Ho iniziato nel 2012, l’ho messo via per un paio d’anni e poi ci sono tornato sopra. Avevo circa 40 canzoni. Ho capito che era venuto qualcosa di musicalmente insolito e che non lo avrei portato in tour con un’orchestra. Così ho pensato di fare una cosa pragmatica e di filmare una performance per far vedere al pubblico come sarebbe venuto dal vivo. Siamo partiti da lì e inizialmente avrebbe dovuto esserci solo la performance, il disco dall’inizio alla fine».
Quando ha cambiato direzione?
«Quando registri un concerto in genere intervisti le persone che ci hanno lavorato. E tutti finiscono per dire che grande onore sia stato lavorare con l’artista… Lo abbiamo fatto, ma a un certo punto ho pensato a come avrei potuto portare la gente dentro alla vita interiore di queste canzoni. Una sera, mentre stavo a casa a guardare la televisione, mi sono messo a buttare giù delle idee e scrivere quelle che sarebbero state delle introduzioni per ogni brano. E una volta che c’erano questi racconti fuori campo, avevamo bisogno di qualcosa per coprirle. Thom ha preso delle immagini che avevamo girato nella session per la copertina del disco e che stavano bene su quella voce. E come ultima cosa ho fatto una colonna sonora per accompagnare le parole. Il film è come una meditazione e così le musiche che ho scritto tendono a essere circolari e ripetitive per cercare di trascinare lo spettatore dentro al racconto. Ecco perché per me alla fine è diventato un film e non soltanto la registrazione di un concerto».
I personaggi delle canzoni di «Western Stars» hanno storie che raccontano la battaglia quotidiana della vita, la distanza fra la realtà e un sogno americano che appare sempre più lontano e irraggiungibile… «Scrivere in terza persona è un modo di esporre la mia vita interiore e i sacrifici. Descrivere i dettagli della vita di qualcun’altro mi fa usare uno stile di racconto cinematografico, mi suggerisce un panorama visivo. L’ho fatto con Nebraska, The Ghost of Tom Joad o Devils & Dust che sono gli altri miei album di storie brevi».
Uno dei personaggi del nuovo disco è l’attore sul viale del tramonto che si racconta fra ricordi e rimpianti nella canzone che dà il titolo al disco. Ha mai avuto paura di fare la sua fine ed essere dimenticato?
«Fino a che sei interessato alla vita e curioso del mondo che ti circonda rimani una forza vivente e quando scrivi riesci a essere creativo. È quello che speravo. Ognuno ha un momento in cui perde la direzione o si perde in sé stesso, ma poi ritrova la strada e la vita prosegue».
Nel materiale scelto con Zimny ci sono anche un video del 1998 del viaggio di nozze di Bruce e Patti Scialfa che scherzano davanti a una baita e giocano a carte e una foto di quando portarono il figlio maggiore, Evan, sulla panchina a Manhattan che era stata il rifugio segreto della coppia agli inizi della loro relazione e che Bruce scelse per chiedere la mano a Patti. Nel film la presenza di sua moglie, Patti Scialfa, è sempre leggera, anche musicalmente, ma costante.
«Era nelle intenzioni iniziali. Il film è anche una lettera d’amore per la mia famiglia e per Patti. Stiamo assieme da trent’anni e quando cantiamo assieme c’è così tanta storia attorno a quel piccolo microfono… Lei è splendida e se si vuole andare a fondo, la sua presenza, anche quando non sta cantando con me, è lì, al centro del film. Thom ha archiviato i miei video privati ed è stato divertente inserire qualcosa. Ci sono anche filmini non miei che Thom ha scelto da altri archivi. Sono tutte cerimonie: matrimoni, feste, famiglia, balli… sono le cose che ci aiutano a tenere la testa fuori dall’acqua».
I cavalli sono uno dei simboli di questo progetto. Ce n’è uno sulla copertina dell’album in studio, nel film vengono ripresi mentre galoppano liberi nel deserto...
«I cavalli sono parte integrante della vita della mia famiglia, da quando 30 anni fa ci siamo trasferiti in una fattoria nel New Jersey. Mia figlia Jessica è una cavallerizza (è una campionessa e punta alle Olimpiadi, ndr)».
Alla fine del film la sua voce augura un buon viaggio ai pellegrini… «E quello che ci auguriamo tutti». E lei a che punto è del suo viaggio?
«Non saprei, ma spero non nell’ultima parte (ride). Credo di avere ancora molte strade da percorrere. Non sono ancora arrivato lì».