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JACQUES GAILLOT: “IL FUTURO È APERTO!”

Quando, nel 1995, gli strali del Vaticano caddero su Jacques Gaillot, Témoignage chrétien, su iniziativa del suo direttore Georges Montaron, fu in prima linea per sostenere il vescovo di Évreux. Oggi, l’invito fraterno di papa Francesco a colui che è diventato “il vescovo degli esclusi” è un vero riconoscimento per tutto coloro per i quali si è impegnato da vent’anni e una buona notizia per coloro che credono che Cristo è per i poveri. Diciamo grazie a Jacques Gaillot per aver accettato di condividere con noi la sua gioia suscitata da quel bell’incontro. 

Può raccontarci che cosa è successo martedì 1 settembre?

Tutto è cominciato con un messaggio. Papa Francesco mi aveva telefonato diverse volte, ma ogni volta ero assente. Trovavo sulla mia segreteria telefonica il seguente messaggio: “Sono papa Francesco!”. Voleva incontrarmi. E, poco tempo dopo, ho ricevuto questo biglietto, molto coerente con il suo modo di essere. Mi sono quindi recato martedì scorso alla Casa Santa Marta con il mio amico Daniel Duigou.

Quando siamo arrivati, un laico ci ha accompagnati nella sala d’attesa, una stanza molto semplice, senza comfort, e ci ha detto che sarebbero venuti a chiamarci. Meno di due minuti dopo, si è aperta la porta ed era lui, il papa, da solo, senza quei “monsignori” che assistono tradizionalmente ai colloqui pontifici. Entra e si siede accanto a noi, prendendo la prima sedia che trova. Gli suggerisco di prendere la mia, più comoda. Rifiuta gentilmente la mia offerta, ricordandomi che “siamo fratelli”.

Allora mi butto: “Ci tengo a ringraziarla di accoglierci qui e a dirle che quelli che sanno che sono venuto qui sono veramente molto felici. Sono sicuramente ancor più felici di me! Trovano che la cosa sia meravigliosa, perché mi dicono che li rappresento. Tutti: i senzatetto, i ‘sans-papiers’, i rifugiati… Io non ho niente da chiederle, ma loro hanno moltissime cose da dirle!”.

Il papa ha sorriso. Gli ho parlato di quel ragazzo in un ospedale psichiatrico che si rallegrava tanto: “Quando ti riceverà, sarà come se io fossi riconosciuto!”. “Vede, ricevendomi, lei fa del bene a tanta gente”. Il papa si è mostrato molto interessato all’esperienza di Daniel, parroco di Saint- Merry, una parrocchia pilota nell’accoglienza dei migranti. Ha ripetuto con forza un’espressione che per lui è essenziale: “I migranti sono la carne della Chiesa”. Ha ricordato che anche lui è un immigrato. E io ho annuito: Francesco è lontano dal suo paese, lontano dal suo popolo, come loro. Non è facile, ma resiste. Gli ho spiegato che sono vent’anni che sono stato allontanato, escluso… “Ma, escludendomi, la Chiesa mi ha dato un buon passaporto per andare verso gli esclusi!”. Ha riso e ci ha ricordato quell’immagine dell’Apocalisse che aveva usato al conclave prima di essere eletto: “Cristo bussa alla porta della Chiesa, ma bussa dall’interno! Vuole che si spalanchino le porte! Per lasciarlo uscire! Per andare a incontrare il mondo e l’umanità”. Gli ho risposto che, in effetti, non bisognava rinchiudere Colui che è venuto a liberarci.

Quando lo abbiamo lasciato e siamo usciti da Santa Marta, Daniel mi ha detto: “Voltati, è ancora lì!”. Ed effettivamente, era in piedi sulla soglia e ci guardava andar via, aspettando, come se non volesse rientrare. Forse non è molto rispettoso, ma gli faccio un piccolo cenno con la mano allontanandomi. Lo abbiamo lasciato come si lascia un amico, un amico che si trova in una situazione un po’ peggiore della nostra: lui è un po’ il prigioniero del Vaticano!

Era visibilmente contento del tempo passato con noi. Non lo abbiamo stancato! Gli abbiamo portato la speranza. Un bell’incontro con un uomo molto semplice, autentico, assolutamente libero. È così che dovrebbe essere la Chiesa.

 Lei è sempre rimasto fedele e leale verso la Chiesa in tutti questi anni. Come ci è riuscito?

Al primo posto, c’è comunque Cristo, la persona di Gesù! È per lui che ho dato la mia vita. La Chiesa, d’accordo, ma non è un assoluto! L’istituzione non è al primo posto nella mia vita. Ho sempre detto che ciò veniva prima era interessarsi alla storia delle persone, alle trasformazioni della società. Non siamo fatti prima di tutto per la Chiesa, ma per la gente. Un giorno ero nel metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapevo più dove attaccarmi. Mi appoggiavo quindi alle persone, a seconda delle scosse, sballottato a destra e a sinistra. Scendendo, ho detto ad un uomo che rideva della mia situazione precaria: “Vede, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la gente!”

Allora, è vero che non sono più stato invitato dalla Chiesa, ma sono stato invitato altrove, da credenti, da non credenti, da musulmani, massoni, detenuti, iraniani, baschi, nelle grandi città e nelle periferie, in piccoli collettivi e in associazioni in lotta. Sempre per incontrare persone ai margini. Quando andavo da qualche parte, era sempre in nome della solidarietà, dei diritti umani, della pace… Ed è evidente che non avrei potuto fare tutti quegli incontri se fossi rimasto un vescovo classico. Sono stato sollevato da tutto ciò che è istituzionale. Ringrazio Roma!

Da quando sono vescovo di Partenia, ho imparato a “predicare fuori”. È una cosa diversa, ma è talmente bello. Mi piace andare ad incontrare le famiglie del DAL a Place de la République. Le donne mi vogliono bene: mi accolgono come se andassi a dar loro chissà che cosa e applaudono quasi prima che io parli!

Oggi, faccio Chiesa con persone come loro, con la gente di Place de la République. In un certo senso, è una benedizione. L’ho detto al papa: “Se lei potesse leggere nel mio cuore, vedrebbe migliaia di persone!”.

Lei pensa che il papa sia in grado di trasformare l’istituzione, di liberare la parola della Chiesa?

Certo ne ha la volontà. Ne ho avuto la certezza appena ho visto che aveva preso il nome di Francesco d’Assisi, riformatore radicale che viveva nella povertà, impregnato di Vangelo! Nessun papa prima di lui aveva osato prenderlo. Il papa vuole davvero andare avanti, ho perfino la sensazione che voglia farlo in fretta. Non si concede periodi di vacanza, lavora fino allo sfinimento.

Ci tenevo a fargli coraggio, a dirgli di continuare: “Siamo con lei, siamo un popolo numeroso! Lei ha suscitato ovunque una speranza enorme, non bisogna deluderla! Lei è una delle rare persone, o forse la sola, la cui parola può essere ascoltata su tutto il pianeta, da tutti gli uomini. Credenti o no”.

Abbiamo parlato del Sinodo, e del fatto che ci si trova oggi di fronte ad una molteplicità di configurazioni familiari. Gli ho detto che pensavo che occorre raggiungere le persone così come sono e non come si vorrebbe che fossero! Siccome mi piacciono i casi concreti, gli ho raccontato di aver benedetto quest’estate una coppia di divorziati risposati. Era il 15 d’agosto, all’aperto, con attorno un centinaio di persone. Che bel matrimonio! Ero in abiti civili e ho benedetto quegli sposi. Ho anche benedetto, sempre quest’estate, una coppia di omosessuali. Erano insieme da nove anni, si erano sposati civilmente e desideravano, essendo cristiani praticanti, essere benedetti dalla Chiesa.

Tutti i preti avevano rifiutato. Allora mi hanno scritto una lettera così bella che non ho potuto fare altro che andare a benedirli. Eravamo all’aperto, c’erano 80 persone, ed era molto bello! Si benedicono le case… perché non le persone? Il papa ha annuito: “La benedizione è esprimere la bontà di Dio a tutti!”. Avrebbe potuto fare delle puntualizzazioni, farmi dei rimproveri. E invece no. Non mette al primo posto le regole, ascolta, si accontenta di dire che la benedizione di Dio è per tutti. Questo fa pensare che è favorevole all’apertura, che vuole liberare le persone, liberare la parola. Dove ci porterà questo? Non lo so!

Per quanto riguarda lei, si può interpretare questo incontro con papa Francesco come una riabilitazione?

Sì, possiamo dirlo. Personalmente non ci ho pensato troppo, perché il semplice fatto di incontrarlo mi sembrava importante. Non immaginavo che l’annuncio di questo incontro avrebbe avuto tali ripercussioni. Il mio telefono trabocca di chiamate e di messaggi. Ricevo moltissime lettere di persone che si rallegrano per me. Ma molte di loro sono deluse: “Come? Non ti ha detto niente? Non ti ha proposto niente?” Si aspettavano cose concrete! Mi è difficile spiegare loro l’atmosfera di quell’appuntamento con papa Francesco: non ci sono stati annunci particolari, ci si è limitati a parlare in tutta semplicità

Eppure, sono molto felice del nostro colloquio. Non cambia la mia vita, ma sono contento di constatare che la Chiesa, al suo massimo livello, accoglie tutto ciò che ho potuto vivere in questi ultimi vent’anni e manifesta che c’è una comunione con il successore di Pietro. È importante e senza dubbio meno per me che per molte persone che mi conoscono.

Ma che cosa l’ha colpita di più in questo incontro?

È bello constatare che, in un’istituzione come la Chiesa, papa Francesco resta un uomo libero. Non è un uomo d’apparato, non è assorbito dalla sua funzione, è semplice, è esattamente come è. È uno che ascolta. Non fa puntualizzazioni, non giudica. Si mette in ascolto della realtà così com’è, in qualsiasi ambito.

La notte successiva al nostro incontro, nella mia camera al terzo piano di Monte Mario, nel convento degli Spiritani, ho guardato attraverso la finestrella che dà sulla cupola di San Pietro e ho realizzato che c’era qualcuno accanto a me, che il papa vegliava, come un custode dell’umanità.

Che cosa vorrebbe dire a tutti coloro che l’hanno sostenuta in questi vent’anni, tra cui anche i lettori di Témoignage chrétien?

Vorrei dire loro che il futuro è aperto. Non penso molto al passato. Sembra che neanche il papa lo faccia. È il futuro che ci attende. È il domani che è da costruire, e tocca a noi scrivere il futuro. Ai cristiani che possono perdere la speranza nei confronti della Chiesa francese, dirò che non bisogna gettare la speranza alle ortiche! La speranza è in noi, bisogna andare avanti, perché Cristo ci precede.

Forza, andiamo!

 

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