Il rilancio della domanda di lavoro è senza dubbio tra le priorità economiche e sociali del nostro paese. La crisi economica ha portato via, tra il 2008 e il 2013, un milione di posti di lavoro. Sono poi peggiorate le condizioni di lavoro, con una sempre più ampia quota di persone, soprattutto di giovani alleprime esperienze professionali, impiegati con contratti atipici. Si fa sempre più diffusa l’esperienza drammatica dell’assenza di lavoro, ma anche quella della cattiva occupazione he espone ai rischi della precarietà e dell’insicurezza sociale.
Si può, per questo, concordare con le motivazioni del governo Renzi sull’urgenza di intervenire con misure per incentivare l’occupazione e combattere la precarietà. L’iniziativa legislativa di primavera, però, promossa a partire dal Decreto Poletti, non solo ha riguardato una parte molto limitata del più generale Jobs Act presentato a inizio anno dal segretario del Pd, ma ha proposto delle misure che, a una prima analisi, non sembrano in grado di raggiungere gli obiettivi dichiarati di “aumentare le assunzioni a tempo indeterminato e, allo stesso tempo, scoraggiare il ricorso a forme di lavoro precario”.
Si è deciso di intervenire principalmente sull’istituto del contratto a termine e su quello dell’apprendistato, mentre la gran parte delle proposte del Jobs Act di riforma del mercato del lavoro sono state rimandate al disegno di legge “Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità ed alla conciliazione” che da metà aprile è in corso di esame in Commissione Lavoro e previdenza sociale.
La nuova regolazione del contratto a termine elimina diverse importanti rigidità che erano state mantenute anche dalla precedente legge Fornero (n. 92/2012), rendendo l’istituto molto più flessibile e di più ampio impiego: in primo luogo, la durata massima dei contratti a termine viene triplicata, da 12 a 36 mesi, eliminando l’obbligo per il datore di lavoro di indicare la causale che con la legge Fornero era necessario a partire dal secondo contratto tra le parti. Il numero massimo delle proroghe viene aumentato: si passa dalla possibilità di una proroga con l’indicazione delle “ragioni oggettive”, all’attuale possibilità di cinque proroghe, senza causale, né ragioni oggettive. L’impiego dei contratti a termine, infine, viene limitato al 20% – se il contratto collettivo non prevede altrimenti – per tutte le imprese con oltre cinque dipendenti ad esclusione degli enti di ricerca pubblici e privati; il mancato rispetto del limite, però, non è più sanzionato con l’obbligo dell’assunzione a tempo indeterminato, come prevedeva la precedente normativa, ma con una multa amministrativa.
L’altro ambito rilevante d’intervento del decreto Poletti ha riguardato l’apprendistato, un istituto ritenuto cruciale per sostenere l’inserimento professionale dei giovani all’ingresso nel mercato del lavoro che dovrebbe costruire dei percorsi di transizione graduale tra la formazione e il lavoro, basati sull’apprendimento di competenze specifiche in relazione a determinati contesti produttivi. Il decreto Poletti aveva eliminato l’obbligo di assunzione di una quota di apprendisti, quello di redigere formalmente un piano formativo individuale e quello dell’obbligo della formazione pubblica. L’intervento del Senato ha modificato questa impostazione, anche se la deregolamentazione ottenuta in conclusione risulta più spinta rispetto a quanto previsto dalla legge Fornero. Infatti, la precedente normativa prevedeva come condizione di utilizzo dell’apprendistato il vincolo che le nuove assunzioni fossero condizionate alla conferma in servizio di almeno il 30% degli apprendisti dipendenti al termine della formazione; questo vincolo è stato allentato e l’attuale normativa prevede che la conferma in servizio si applica solo per le aziende che abbiano almeno 50 dipendenti, e per queste ultime l’obbligo si è ridotto al 20%. Viene eliminato il contratto in forma scritta con una “forma scritta semplificata” per il quanto riguarda il piano formativo individuale, mentre l’obbligo di formazione teorica, precedentemente previsto, viene sostituito con un obbligo di formazione pubblica se l’ente regionale di pertinenza è in grado di offrire una propria offerta formativa (entro 45 giorni, completa di sedi e calendario di lezioni).
Si tratta di due insiemi di interventi che si basano sull’ipotesi della “flessibilità espansiva”, vale a dire dell’idea che la deregolamentazione e la riduzione dei vincoli nell’impiego delle forme flessibili di occupazione siano in grado di creare le condizioni per aumentare la domanda di lavoro.
Le imprese private, da questa prospettiva, non assumerebbero a causa di vincoli nel lavoro e dei limiti al licenziamento, ma proprio nel caso italiano si è visto che la deregolamentazione del mercato del lavoro, la disponibilità di un ampio ventaglio di contratti flessibili e anche l’allentamento dei vincoli al licenziamento con la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, non hanno determinato condizioni favorevoli alla crescita dell’occupazione. Al contrario, la flessibilità occupazionale ha avuto effetti negativi sulla produttività e l’innovazione delle imprese, poiché producono incentivi a competere sul costo e la flessibilità del lavoro, con progressiva perdita di competitività delle imprese. Proprio queste considerazioni dovrebbero portare a riconsiderare l’opportunità di concentrarsi sulla domanda di lavoro, con nuovi investimenti pubblici e una nuova stagione di politiche industriali. Anche nell’attuale fase di crisi occupazionale, dovrebbe essere chiaro che l’obiettivo non può essere quello dell’occupazione qualunque essa sia, senza considerare il rapporto con i progetti biografici, le tutele sociali e i diritti. Ulteriori elementi di flessibilità non bilanciati da nuovi diritti sociali e di cittadinanza, non possono che accentuare i rischi di precarietà e insicurezza sociale con limitazioni anche sulle potenzialità di ripresa economica.