Officina delle idee

«La gente chiede la certezza della pena. A quale scopo?»

Una mattina, sono entrato, alle ore otto, nella sezione femminile del carcere di Bergamo. Vi ho trovato un silenzio irreale, mi pareva di essere in un monastero di clausura. Di solito, il carcere è pieno di voci concitate, che  chiedono e rispondono a vari bisogni, vi è una tonalità alta come se fosse impossibile parlarsi con toni pacati.

Pare quasi che si sappia già che chi ci ascolta, operatori e persone detenute, sia un po’ sordo e alzare il tono della propria voce serva a farsi comprendere meglio. La diversità di quella mattina, era il 14 gennaio 2003, giorno d’attesa per i provvedimenti sull’indulto, mi ha fatto pensare ai momenti di silenzio che si susseguono, sul pianeta carcere, dopo le voci concitate suscitate dai riflettori accesi dalla comunicazione sociale. Luci sparate nei momenti di litigiosità politica sulla giustizia o quando accadono fatti violenti che scuotono l’opinione pubblica. La storia delle persone, la fatica della loro vita, le  contraddizioni nell’appartenere alla convivialità sociale sono silenti, non sono ascoltate, non trovano Il delitto parla, il sangue suscita emozione, il male ha bisogno di pubblici esorcismi in processi svolti nei bar, nelle piazze, nei dibattiti televisivi prima che nelle aule di giustizia.

I tribunali, deputati a dirimere i fatti d’illegalità, capaci d’uguaglianza che zittisce le voci di vendetta per ascoltare le voci che ricercano verità, hanno un miscuglio di voci sociali che sembrano già preparare la base di un disco su cui incidere la scelta della condanna. La gente chiede la certezza della pena, a quale scopo? Forse chi si rifà alle giuste grida sulla certezza della pena delle vittime dei reati, non ascolta il desiderio profondo di giustizia che sottende il clamore di una richiesta urlata perché non colta nei suoi desideri più disperati e dimenticati.

Ci sono grida che accomunano, le persone che incontriamo quotidianamente in carcere gridano, pur esse, per avere una giustizia più certa, più veloce, meno caotica, meno burocratica. Tutti sono zittiti da una condanna, che da una parte lascia la vittima nel suo dolore e il colpevole dimenticato nel limbo del carcere. Entrambi non esistono più l’uno per l’altro, la società delega al silenzio del carcere e alla solitudine della sofferenza della vittima l’opera di cura e consolazione delle ferite.

Molte volte, per farsi ascoltare, non rimane che l’urlo, la morte, i tentati suicidi, le richieste di pena di morte; oppure il silenzio della rassegnazione, l’azione chimica dei farmaci per ottenebrare il desiderio di vita, reso impraticabile da ricordi di ferite inguarite. Gli altri fuori, pensano a quelli dentro, sapendoli all’interno di una struttura chiusa, istituita per difendere la società da eventuali altre commissioni d’illegalità. I primi hanno una voce possente, udibile senza contestazione o possibilità di difesa. Per i secondi non è possibile spiegare il perché della propria azione: come mai hai ucciso proprio la persona che amavi, perché continui a spacciare, che cosa ti spinge a continuare a commettere reati, come mai resti in carcere anche se sei innocente.

Non riesci neppure a far sentire la tua voglia di riparare al male fatto, il tuo desiderio di ritornare in società per riassumere le tue responsabilità famigliari e sociali. Quando, a fatica, filtra dalle mura qualcuno di questi desideri nasce immediatamente una babele di commenti, alla fine, rimane, negli orecchi della gente, solo il solito tenetelo dentro. Chi ascolta le paure, il senso di vuoto e d’inutilità. Qualcuno coglie, all’interno le voci, prova a far risuonare all’esterno i vissuti, ma come per magia scompaiono in fretta, come una specie di temporale improvviso e repentino che non lascia traccia. Le impronte e i segnali rimangono là dove ci s’incontra, ci si parla, si lavora assieme, si riesce ad abbattere il muro che ci divide. Dove il male successo, non cancella l’uomo come simile, come persona con cui poter continuare a vivere, l. le voci si possono riascoltare. In questo riascolto reciproco si collocano e si generano le accoglienze che liberano. È possibile allora ascoltare i senza voce del carcere zittendo i nostri desideri di vendetta, permettendo a noi stessi di scoprire la nostra non innocenza, i legami di connivenza con le cause che portano altri a scegliere strade d’illegalità codificata come penale. Non  dimentichiamoci che l’essere giusto molte volte equivale al non essere scoperto o al non fare cose illegali. I desideri di giustizia, che si frantumano contro i blindi in ferro delle celle delle carceri, sono gli stessi che blindiamo, dentro le nostre vite, dietro le sbarre dei nostri privilegi, del pensarci più degni di altri, più giusti.

Il Carcere, luogo di segregazione e di limitazione della libertà non potrà mai da solo svolgere un compito di compimento della giustizia. Oggi ancora siamo di fronte a continue altalene che da una parte ricercano cammini responsabilizzazione e riparazione del male fatto dall’altra non riescono a scegliere una giustizia che rinunci al desiderio di far soffrire pensando così di redimere il colpevole e soddisfare le vittime. Mentre pure pensiamo a nuove norme le cerchiamo con il cuore di pietra, la convinzione che bisogna punire facendo soffrire e, come si suol dire, non premiando Caino, ci incatena.  Sono catene che si traducono in molteplici intoppi e inciampi seminati lungo il percorso di recupero che teoricamente dovrebbe essere offerto ha chi, condannato definitivo, è nelle nostre carceri. Blocchi insormontabili per i più poveri e i più deboli. Le nostre accoglienze sono per loro, Gesù Cristo ha scelto i poveri per annunciare la bontà del Padre, Papa Francesco ce lo ricorda in continuazione. La libertà che osiamo proclamare nei nostri luoghi di accoglienza è la libertà dei figli di Dio, che si accorgono di essere salvati dalla misericordia del Padre e si impegnano a comportarsi come figli di quel Padre. In questo senso, per i credenti, l’accogliere per liberare non è solo un gesto di solidarietà ma è un segno di un evangelizzazione, fa parte della missione della chiesa. Come punto più alto siamo invitati a far festa con chi desidera ritornare a casa. Con Gesù riconciliatore festeggiamo per ogni occasione in cui si percorrono strade di riconciliazione e dove non si lascia nessuno, rei e vittime, nell’impossibile affrancarsi dal male da soli. Scegliamo e costruiamo luoghi di liberazione riconciliante, con dei tenui passi, sapendo la nostra vita affidata a continui gesti di amore che ci accolgono anche nei nostri affanni ed errori. In un continuo vaneggiare di paure e conflitti scoccheranno scintille di fiducia reciproca e di accettazione dell’altro estraneo dapprima, a volte nemico, fino al giungere dell’incontro con il desiderio di vita simile al nostro.

È bello pensare alle azioni compiute, in cosciente umiltà, come allo scoccare di vite rinate, di piccoli rivi che depurano i fiumi intorpiditi da temporali. Non più solo desideri ma fatti, che intrecciano le vite di uomini che dapprima si vivono da nemici e poi ascoltano il dolore e la ricerca di felicità dell’altro. Le persone che hanno vissuto la riconciliazione, hanno scoperto in se stessi dei desideri di profondità. Vivono la volontà di collocare nei propri e altrui posti di responsabilità l’essere fecondi servitori di un bene comune migliore. L’incontro del male causato o subito presenta mani da stringere per cercare il bene di entrambi e della convivenza sociale. Credenti in Cristo, in Allah, in Dio, in Altro più grande di sé, nell’Umanità accettano la felicità faticosa del costruire comunione dal male e dal conflitto. Uomini e donne, segnati dalla fatica del convivere e dall’incontrare l’altro, assieme ad altri uomini e donne ritentano l’avventura di essere riconciliati. Alle istituzioni e organismi sociali proponiamo così con i fatti la possibilità di una società civile che può responsabilmente rispondere al male accaduto con strumenti di bene.

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