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LA LUNGA NOTTE DI VASCO.EROE SENZA TEMPO ED ETICHETTE.SEMPLICEMENTE SE STESSO.

Più di quarant’anni di Vasco Rossi. Il tempo che è servito a far sedimentare le sue canzoni nell’immaginario collettivo, a conficcarle nell’inconscio degli italiani.

Alla base del mito del “Komandante”, come è stato soprannominato dai membri del suo fan club ufficiale, ci sono due intuizioni semplici, tanto banali da essere quasi autoevidenti ma che si sarebbero rivelate potentissime: la prima è il fatto che il suo paese natio, Zocca, non era la “Swinging London”.

“Io volevo lo spettacolo, pensavo ai Rolling Stones, che sono stati sempre il mio punto di riferimento. Volevo esprimermi con il linguaggio rock”, disse tempo fa al critico musicale Christian Zingales riferendosi ai suoi esordi di metà anni settanta. C’è da credergli: fu tra i primi (secondo forse al solo Adriano Celentano) a mettere in piedi una versione credibile di “rockstar nostrana”, figura che in Italia veniva malamente interpretata attraverso l’abuso di cover o tramite parodistici adattamenti agli originali d’oltremanica.

Ma Vasco riuscì nel suo intento solo rendendosi conto che non poteva scimmiottare i propri modelli; non aveva più senso fantasticare di un’idealizzata “Swinging London”, meglio raccontare la vita vera, quella che gli apparteneva, quella, cioè, di un ragazzo nato nella provincia emiliana da una mamma casalinga e un padre camionista. E allora ecco che bastava scorgere dalla finestra una studentessa mentre aspettava la corriera per scrivere “Albachiara”, o magari parafrasare una conversazione sboccata tra amici, durante una serata alcolica nei locali del modenese, per poi venirsene fuori con una canzone.

La seconda intuizione nasceva da una consapevolezza maturata durante l’adolescenza: i cantautori avevano rotto le scatole.

“Volevo cambiare pagina rispetto al periodo dei cantautori, che pure ho amato. Negli anni ‘80 la gente non aveva più voglia d’impegnarsi ad ascoltare, come neanche ora del resto, quindi c’era bisogno di frasi veloci, slogan, canzoni che fossero più sintetiche.” Adattarsi a questo nuovo modo di concepire la forma-canzone fu un processo più faticoso; i primi passi di Vasco cantante e autore erano ancora impregnati di un humus cantautorale, ma si trattava semplicemente di togliersi di dosso le scorie di un approccio ormai superato. Già con il suo terzo disco, “Colpa d’Alfredo” del 1980, si stagliava netta l’immagine del performer ruspante, pronto a ridefinire il lessico rock in salsa nostrana senza complessi d’inferiorità, come a proclamare che le idee e i colpi di genio non fossero appannaggio delle sole star anglofone.

“Colpa d’Alfredo è la canzone di un provocautore – ha raccontato qualche giorno fa di fronte a un gruppo di fan devoti – è un pezzo in cui il linguaggio parlato è portato dentro la canzone, che nasce dal nostro modo di parlare, e allo stesso tempo è un po’ la versione della Febbre del Sabato Sera romagnola.”

Da quel momento la storia di Vasco diventa la narrazione di come questa nuova consapevolezza, che rappresenta la conquista dell’autenticità, possa scontrarsi con il perbenismo di una certa Italia benpensante, che stigmatizza gli aspetti libertini del “rocker” etichettandolo come un modello poco edificante. “Divo di questo ‘complesso’, che più complessato di così si muore, è un certo Vasco. Vasco de Gama? Ma no, Vasco Rossi… (…): un bell’ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumè dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato fatto”, scrisse di lui il giornalista Nantas Salvalaggio dopo una delle prime esibizioni televisive del cantante, a Domenica In.

Ogni volta che gli chiedevano conto del suo essere “un cattivo esempio per i giovani” Vasco rivendicava la libertà di scegliere il modo in cui vivere, il diritto di non dover rappresentare un modello per nessuno, il diritto, in fondo, all’autodeterminazione: “Cantavo come vivevo e vivevo come cantavo e andavo avanti per quella strada lì, non perché mi volevo autodistruggere, ma perché calcolavo che anche se mi autodistruggevo era tutto perfetto, era una storia con un suo senso”.

E sarebbe presto arrivato il momento di rispondere al giornalista che lo aveva insultato, durante il primo dei due festival di Sanremo a cui prese parte, quello del 1982, direttamente tramite un verso di “Vado al Massimo”, la canzone con la quale partecipava: “Meglio rischiare che diventare come quel tale, quel tale che scrive sul giornale”. Il rischio ha pagato: nei successivi 35 anni il Blasco si è progressivamente trasformato da rockstar a icona nazionale, fino a diventare una sorta di nume tutelare: i suoi fan un vero e proprio “popolo”, i suoi spettacoli dei riti messianici.

Oggi, a 40 anni dal primo album, la storia sembra aver percorso un itinerario circolare, tornando a illuminare i luoghi dove tutto è cominciato. Il primo luglio a Modena 220 mila persone partecipano a un rito laico, celebrato da un sacerdote che con i suoi primi dischi ha riscritto la storia della musica italiana e che poi ha diviso a metà l’opinione pubblica, tra quelli che sono rimasti devoti e chi ha visto nello sviluppo della sua carriera un lento derapare verso l’inno da stadio un po’ facilone. Ma senza che nessuno possa negare un dato di fatto: quello che Vasco Rossi ha cantato rappresenta, per un enorme numero di persone, ciò che questo paese avrebbe voluto essere e in parte è stato. Semplicemente se stesso.

Daniele Bova ( da L’Unità)

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