Di Carlo Fedele
Tra il ‘200 ed il ‘300 trionfavano le serenate e soprattutto le mattinate, cantate più o meno improvvisate alla propria amata. Si racconta che MANFREDI, figlio di FEDERICO II, uscisse nottetempo dalla Reggia per andare a cantare e ballare per le strade della città. Il fenomeno assunse una dimensione tale da far emettere al citato regnante, nel 1221, un decreto di proibizione, giustificato dalle continue proteste dei cittadini “impossibilitati a dormire”. Multe e arresti si registreranno numerosi per gli anni a venire. In una Napoli straordinariamente aperta alla cultura fiorisce un canto popolare che riscuote notevole fortuna, tanto da essere tradotto in molti altri dialetti. Con l’avvento del trecento aumenta la produzione di ballate, frottole, sonetti e strambotti (un’ottava a rima alternata nei primi versi e a rima baciata negli ultimi due ). I poeti ed i musici di corte diedero vita con i loro componimenti al primo canto popolaresco napoletano, ma il popolo non accettava le forme gravi, pesanti e artificiose di questi poeti e spesso si rifugiava nei suoi freschi canti popolari, canti che venivano trasmessi per via orale di generazione in generazione, subendo in ogni contrada modificazioni al testo e, talvolta, anche qualche variante musicale. Il dialetto napoletano garantiva una musicalità impareggiabile, che è rara trovare in altri linguaggi. Nel 1335, ROBERTO D’ANGIO’, detto “il saggio”, dovette reiterare il divieto delle “serenate e mattinate” dato il disturbo che queste recavano alla pubblica quiete. A cantare non era una città, ma un popolo, sempre diverso: rurale, montanaro o marinaro. Questa voglia di cantare è testimoniata anche dal “Boccaccio” durante il lungo soggiorno a Napoli in alcune pagine del “Decamerone. Importanti innovazioni verranno nel’400, quando per volere del Re Alfonso d’Aragona il dialetto fu promosso come lingua del Regno e le ballate, i sonetti, gli strambotti, i madrigali, le frottole si cominciarono a scrivere in napoletano. La frottola, in particolare, che era un tipo di canzone già conosciuta in tutta l’Italia, nella nostra regione nella seconda metà del’400 sostituì la ballata, così come lo strambotto sostituì il sonetto. Il madrigale invece, che a distanza di due secoli sfocerà nel melodramma, apparteneva alla cultura dei musicisti classici, mentre i meno classici apprezzavano un genere nuovo: la villanella, che, di lì a poco, invaderà l’Italia e l’Europa. Questa composizione ad una o più voci soppiantò tutte le preesistenti, perché ne era una “summa” più aggraziata e divertente. I signori fecero a gara per tenere a corte compositori di questo genere musicale, presto mutato dal popolo e abbellito in vari modi. Con il suo canto popolare, Napoli porta in tutta l’Europa le villanelle napoletane e, con questo successo, il dialetto napoletano entra anche a corte per divertire nobili e plebei. La Villanella diventò una malattia, una moda, e prima di svilupparsi in altre forme (madrigale nel 1533) uscì dai confini del regno ed ebbe cultori, inventori ed esecutori i più disparati in ogni dove, ma sempre in napoletano. Poeti di strada le portavano in giro tra il popolo. La città madre per la stampa delle villanelle fu Venezia, ma dal seicento in poi questo genere si appannò, perse lo smalto sorgivo e istintivo, scomparve dai testi stampati. Gli ultimi a comporne furono i maestri della reale cappella di Napoli. La villanella è per temi, melodie, ironia, amore, la vera forma iniziale della canzone napoletana. Il nome ci indica l’origine: contado, villaggi, Campania felix et ferax. La sua grandezza sta nella formula espressiva, divertente, ironica o ammiccante e gioiosa, nella sua ripetitività ossessiva, nel suo tempo mai noioso o fastidioso, nell’autenticità “villana” dei sentimenti che mette in piazza.
E così da quel canto a tre voci (o una voce più due strumenti) che era nella sua origine agreste, questo componimento si arricchì di strumenti (liuto e arpa e poi cembalo e clavicembalo) fino a diventare perfino polifonica. Con la Villanella si attua per la prima volta nella storia della canzone napoletana quel movimento dal basso all’alto che diventerà un leit-motiv nei secoli a venire, quasi a suggellare un’identità culturale tra popolo, borghesia o nobiltà nel nome di Napoli. Il popolo prende in giro, ironizza sui vizi dei potenti oppure si ridescrive nei nuovi inusitati panni cittadini, canta i nuovi mestieri, le relazioni, ma continua a riproporre l’amore, l’inganno, la ritrosia delle donne amate. Furono questi anni quelli degli ultimi guizzi di vita per lo strambotto mentre il Madrigale è in gran voga e scoppia la moda della Villanella “affinata”. I musicisti, in cerca di raffinatezze, ne scrivono moltissime a più voci così che possano essere presentate nelle Corti e tra i colti nobili, come vere e proprie opere d’arte. Fu talmente amata che varcò anche i confini d‘Italia; infatti, fu dovunque imitata e stampata con la denominazione di “Villanella alla Napolitana”, come una vera e propria denominazione di origine controllata dei nostri giorni. Fra gli altri: Giovan Battista Basile, Giulio Cesare Cortese, Filippo Sgruttendio, Velardiniello (Passaro Bernaldino, primo grande poeta in lingua napoletana), hanno lasciato molti componimenti o frammenti di versi scritti per questa forma musicale. Moltissimi i fogli volanti (le primigenie Copielle) purtroppo andati perduti. La prima “villanella” a stampa è del 1537, la famosa “Voccuccia de ‘ no pierzeco apreturo”. L’ultima è del 1652. In questo 1500, quando indiscutibilmente il dialetto assurge a lingua, un congruo gruppo di professionisti poeti, avvocati, architetti di corte si cimenta in strambotti, frottole e ballate colte. Col 1502 comincia la dominazione spagnola, Napoli diventa vicereame, la lingua nazionale cambia, ma il dialetto paradossalmente si fortifica. Poeti rapsodi, spesso cantori oltre che abili musicisti, partecipavano a feste e balli popolari ed erano ricercati ed applauditi dappertutto. Tradizione antichissima ha questa che fu la “Posteggia”. Essa è l’erede degli antichi cantori girovaghi, che portavano dalla Corte e dal Castello i canti al popolo dei borghi e delle campagne e, viceversa, i canti del popolo alla Città ed alla Corte. Con l’andare del tempo questa forma d’intrattenimento divenne un vero e proprio lavoro. A fine secolo comincia inesorabilmente il declino della canzone napoletana, determinato in buona parte anche dalla nascita di una nuova forma musicale che avrà grande sviluppo nel secolo a venire: il Melodramma. Arriva il ‘600 stracarico di cultura musicale, portando con sè il declino della villanella e l’evolversi e il trasformarsi del madrigale e, da questi, l’avvento del melodramma. Le villanelle concludono il loro ciclo evolutivo. Il ‘600 dona alla nostra città i tre primi grandi poeti e scrittori: Filippo Sgruttendio da Scafati (?), Giulio Cesare Cortese (1575-1621) e Giambattista Basile (1575-1632). Nelle opere di questi tre grandi poeti del ‘600 si sente lo slancio puro e ardito del popolo che partecipa, con questa sua lingua corposa e “tosta”, a tutta la cultura del tempo, descrivendone la vita, i costumi e offrendoci, così, una viva, diretta, fresca testimonianza di essa. Nonostante la rivoluzione di Masaniello nel 1647, la peste del 1656 e il terremoto del 1688, il popolo, anche in queste tragedie, continuava a cantare per levarsi di malinconia. Le opere del Cortese, le dialogate Egloghe del Basile e la ‘Ntrezzata dello Sgruttendio prepararono la nascita della Commedia Dialettale e dell’Opera Buffa (1700). Le condizioni sociali e morali del popolo napoletano alla fine del ‘600 sono disastrose, dopo varie dominazioni straniere la città era caduta nel disordine e nella miseria più nera. La Napoli di fine ‘600 e inizio ‘700 riversa nelle strade la voglia eterna di cantare ballando sfrenatamente le tarantelle, un ballo di moda e, allora, di grande successo. Tornando al melodramma, l’opera lirica fa capolino a Napoli nel 1651, in un teatrino fatto erigere, nel suo palazzo, per l’occasione, dal Viceré Conte d’Onatte. Il segno di questo secolo musicale è pur rimasto. Con la celebre Michelemmà (Michela è mia!), attribuita a quel genio bizzarro che fu Salvator Rosa, nelle opere coeve del Cortese e del Basile, per le forme antiche e per gli effetti d’abbellimento vocale tipici degli stili esecutivi dei musici locali, nelle opere scritte per il teatro che grande fortuna cominciavano a trovare presso il popolo.