Cultura

La Resistenza, un patrimonio per l’Italia

di Ciriaco Milano

“Garantire la Costituzione”, ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento,  significa  tra  le  altre  cose  “ricordare  la  Resistenza  e  il  sacrificio  di  tanti  che  settanta  anni  fa liberarono l’Italia dal nazi-fascismo”. A 70 anni dalla liberazione, forse per la prima volta, le ragioni e i valori della Resistenza sono minacciati dall’interno. La Resistenza è vista spesso con sguardi diffidenti, la si carica di falso ideologismo, di ambiguità e mistificazioni da cui è possibile dare solo un giudizio moralmente negativo. Chi oggi fa revisionismo, in verità, sovrappone presunte ricostruzioni documentarie a giudizi morali finendo per compiere un’operazione che attiene non alla sfera storica bensì a quella politica. Affermare che quanto accaduto in Italia tra il 1943 e 1945 costituisce un  inestricabile groviglio di violenze, parlare di “sangue dei vinti”,  significa  dare  un  giudizio  etico  a  quelle  vicendee  spostarsi  sul  terreno  della  morale  implicherebbe, innanzitutto, l’esigenza di fare chiarezza sul concetto di violenza all’interno di una guerra, come era quella che  l’Italia  viveva  in  quegli  anni.  Analizzare  la  storia  significa  processare  il  passato e,  naturalmente,  la sentenza sarà buona se il giudice è capace, altrimenti sarà falsa e pretestuosa. E’ necessario, quindi, che chi giudica studi i documenti prima di emettere giudizi, ma soprattutto che sia imparziale; che non si tratti né di un  tribunale  speciale  di  tipo  fascista  né  di  un  tribunale  del  popolo.  Storia  e  verità  sono  un  binomio inscindibile anche perché una storia aggiustata per fini politici serve veramente a poco. Oggi il revisionismo consiste soprattutto nell’utilizzare un falso moralismo per aggiustarsi la storia, focalizzandosi sui “vinti”; solo che in guerra non ci sono né vincitori né vinti, ma vittime inermi da ricordare. Si evita di pronunciarsi con chiarezza  sulle  responsabilità  di  chi  ha  infierito  su  di  esse,  responsabilità  che  non  sono  né  cancellate  né attenuate se poi chi ha infierito si è ritrovato nella spiacevole condizione di vinto.  Continua a mancare una chiara  denuncia  del  male  che  ha  generato  tutto  questo,  continua  a  mancare  la  domanda  cruciale  su  cui invece dovrebbe poggiare tutto il dibattito: come è stato possibile? Oggi il giudizio sul fascismo è indulgente, comprensivo,  benevolo.  La  “defascistizzazione  del  fascismo”,  per  dirla  con  lo  storico  Emilio  Gentile,  è  un fenomeno  tutto  italiano  che  ha  svuotato  il  regime  dei  suoi  tratti  liberticidi,  ha  negato  il  suo  carattere totalitario, ha giustificato i crimini commessi finendo per legittimare un’immagine mitizzata del Duce e della dittatura.  La  Resistenza  è  stata,  quindi,  denigrata,  considerata  come  una  “cosa  di  sinistra”,  una  “roba  da comunisti”, bandiera rossa e “Bella Ciao”. Di quelle vicende se ne ritrae un’immagine confusa di accanimento contro vinti inermi ad opera di vincitori crudeli. Certo la Resistenza ha avuto anche pagine nere; la gente deve sapere delle esecuzioni mirate nel “triangolo della morte”, dei crimini ad opera dei partigiani comunisti nei confronti  di  partigiani  cattolici  come  Guido  Pasolini,  fratello  di  Pier  Paolo,  e  Francesco  De  Gregori,  zio  del cantautore  che  ne  porta  il  nome.  Ma  la  Resistenza  è  essenzialmente  altro.  A  volte  episodi  feroci  della liberazione non si comprendono se non si racconta la storia dei luoghi dove sono accaduti. A piazzale Loreto i  corpi  dei  partigiani  fucilati  rimasero  esposti  per  giorni  e  quando  la  folla  si  abbandonerà  all’esecrabile scempio del corpo del Duce, molti avevano ancora davanti agli occhi quell’immagine. Il che non giustifica, ma aiuta  a  capire.  La  Resistenza  sono  i  quasi  centomila  martiri  caduti  per  mano  fascista.

Chi  fa  revisionismo dovrebbe chiedersi chi  sono i “vinti” e  chi i  “vincitori”. Quelli  che oggi vengono  chiamati “vinti”  avevano  il controllo  del  territorio  oltre  alla  forza  dell’occupante  nazista,  mentre  i  “vincitori”  dormivano  nelle  stalle,  si contendevano materiali e viveri paracadutati. Da una parte una formidabile macchina da guerra, dall’altra i resti  di  un  esercito  vinto  e  ribelli  allo  sbando.  I  “vinti”  sono  i  ragazzi  di  Salò  di  cui  si  dà  sempre  più un’immagine un po’ assolutoria: i repubblichini, i balilla non erano i romantici partiti a cercar “la bella morte”, ma quelli che con la Carta di Verona approvano e appoggiano la persecuzione degli ebrei mentre al Sud il governo abolisce le leggi razziali. Prima di omaggiare il patriottismo dei ragazzi di Salò bisogna chiedersi di quale patria si tratta. È Mussolini che il 4 ottobre del 1922, prima della Marcia su Roma, dichiarò che lo Stato fascista  avrebbe  diviso  gli  italiani  in  tre  categorie:  gli  indifferenti,  i  simpatizzanti  e  i  nemici.  Questi  ultimi, annunciò, andavano eliminati. Se si parte da queste premesse, non c’è più una patria degli italiani, c’è solo la patria dei fascisti. Per Mussolini, Pertini e Sturzo non erano italiani. Il bene e il male, però, non si dividono mai con la spada; gli uomini che scelsero il Duce e Hitler non sono tutti uguali, qualcuno persino era in buona fede,  ma la buona fede non può essere un criterio di valutazione storica. Erano in buona fede,  ma in ogni caso ebbero torto.  Dire la verità significa dire che da una parte c’era il nazi-fascismo, dall’altra contadini e sacerdoti,  santi  della  Chiesa  come  san  Massimiliano  Maria  Kolbe,  partigiani  comunisti  e  cattolici,  donne  e uomini di ogni sorte che morirono per difendere il tricolore. Da un lato Auschwitz, la Risiera di San Sabba e le leggi razziali; dall’altro lato  Sandro Pertini  e Mike Bongiorno,  Giacomo Matteotti e i  fratelli Rosselli,  Enrico Mattei e Gino Bartali, Adriano Olivetti e Italo Calvino. La Resistenza spesso vive nei Ferruccio Parri e i Luigi Longo,  mentre  ci  sono  storie  e  luoghi  dimenticati  come  i  5000  soldati  italiani,  i  primi  resistenti,  fucilati  a Cefalonia nel settembre del 1943, i rastrellati dell’‘operazione Piave’ a Bassano del Grappa, la ‘lunga notte del 43’ a Ferrara, i deportati della Benedicta, vicende come quelle accadute a Boves, a Marzabotto, ad Acerra, alle Ardeatine, a Civitella Val di Chiana e in tutti luoghi, che non ci sono nei libri di storia, in cui i nazisti hanno fatto stragi con la complicità dei fascisti, i ragazzi di Salò. Molti nomi, molte storie mancano, ma i nomi e le storie  che si  sono dovrebbero bastare per giungere  ad  un giudizio oggettivo su quegli anni terribili.  Dalle persecuzioni  fasciste  qualcuno  riuscì,  però,  a  scampare.  “Lo  avrai,  camerata  Kesserling,  il  monumento  che attendi da noi Italiani, ma  con che pietra si costruirà  tocca  a noi  deciderlo”, scrisse uno dei  pochi  mancati prigionieri.  Il  “fortunato”  si  chiamava  Piero  Calamandrei  e  il  monumento  che  idealmente  opponeva  al comandante  delle  forze  di  occupazione  naziste  in  Italia,  Kesserling,  era  la  Costituzione  della  Repubblica Italiana.  Nel  monumento  di  Calamandrei  c’è  la  pietra  dell’umiliazione,  della  lotta  sulle  montagne,  la  pietra dell’orgoglio  patriottico,  la  pietra  della  speranza  in  un  Paese  diverso  che  potesse  dare  un  futuro  al  suo popolo. E infine il sogno europeo che ha assicurato settanta anni di pace nel continente. Dopo tanti anni la Resistenza non dovrebbe  essere il patrimonio di una  fazione,  ma il patrimonio  della Nazione  e il fascismo bollato come “antitesi di tutte le fedi politiche”, come ebbe a dire il Presidente Sandro Pertini. Invece accade che  aumentano le pulsioni neofasciste  e una visione  mitico-nostalgica  a dispetto della  conoscenza  storica.
Può persino accadere che una mano anonima pensi di strappare la targa commemorativa e di tracciare una svastica  sul  muro  della  cascina  Raticosa,  rifugio  sui  monti  sopra  Foligno  dove  nel  ’44  trovarono  riparo  24 partigiani condannati ai lager. L’anonimo profanatore, però, non poteva immaginare che uno di quei ragazzi era  sopravvissuto  alla  retata.  Ha  scritto  Massimo  Gramellini  in  uno  dei  suoi  straordinari  «Buongiorno»: ”Mentre tutto intorno le Autorità deprecavano e si indignavano a mani conserte, il signor Enrico Angelini non ha pronunciato una parola. Ha preso lo sverniciatore, il raschietto, le sue ossa acciaccate di novantenne ed è tornato  al  rifugio  della  giovinezza  per  rimettere  le  cose  a  posto.  Con  lo  sverniciatore  e  il  raschietto  ha cancellato il simbolo nazista. E dove prima c’era la targa ha appoggiato una rosa”.  Ecco, il problema è che sentiamo nostre solo le storie che ci riguardano in prima persona, non c’è più “resistenza”, chi dovrebbe agire preferisce indignarsi. Gli italiani si sono autoassolti dal fascismo, il nostro Paese ha rinunciato alla conoscenza storica, appare come svuotato sul piano etico e nella coscienza civica. Gli italiani sembrano indifferenti alla storia  e  accettano  false  semplificazioni.  Per  questo  c’è  bisogno  di  verità,  occorre  dire  che  la  storia  dei resistenti è storia di vittime e non di vincitori. E’ giunto il momento di riconoscere il valore della loro lotta e di rispettare  tutti  i  morti  della  guerra.  Ha  scritto  Cesare  Pavese,  uno  di  quelli  che  all’impegno  storico  della montagna partigiana preferirono una solitudine individuale: «Ora che ho visto cos’è la guerra, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: ‘E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?’». Probabilmente non c’è risposta che tenga, ma il primo passo per tentare di farlo è ricordare. E riconoscere il debito che tutti noi italiani abbiamo con loro, con le donne e gli uomini della Resistenza. Perché ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.

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