Che in Italia ci sia un Sud che abbia necessità di crescita e di occupazione lo sappiamo dalla notte dei tempi. Adesso, però, le cose si complicano non poco. L’ultimo Rapporto Svimez ci consegna un’Italia spaccata in due, con un Nord che tutto sommato regge agli scossoni della crisi e un Mezzogiorno a rischio desertificazione industriale e umana. Significa dare corpo e sostanza al “Fuitevenne a’ Napule” di eduardiana memoria, stavolta esteso a tutto il Meridione. Perché è inutile girarci intorno, le cose stanno proprio così. Quando si legge che negli ultimi cinque anni le famiglie assolutamente povere sono più che raddoppiate, che al Sud si concentra oltre l’80 per cento delle perdite dei posti di lavoro italiani, che in dieci anni sono migrate dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord oltre un milione e mezzo di persone (e si prevede di arrivare a 4,2 milioni nei prossimi 50 anni), allora tutto diventa drammaticamente chiaro. E cioè che il Meridione – a meno di una collettiva presa di coscienza del disastro, che prima o poi rischia di travolgere anche il Nord – non può farcela.
Una presa di coscienza che non può essere fine a se stessa, ma che deve contenere i prodromi di una rinascita civile e culturale prima ancora che economica. A che serve il rimpianto di aver sprecato occasioni a go-go per ricostruire un Mezzogiorno su solide basi? A chi importa ormai puntare il dito sulle responsabilità, sulle cialtronerie, sui saccheggi di finanza pubblica avvenuti in anni diversi da questi, quando le condizioni per un rilancio dei nostri territori era ancora possibile? No, il tempo della autocommiserazione è terminato. Adesso occorre fare i conti – e farli alla svelta – con quei numeri che la Svimez ci ha scaraventato in faccia come pietre. Numeri che ci obbligano a riconoscere che il pericolo è grande e che bisogna agire. E siccome a livello centrale non mi pare che vi sia una veduta di largo respiro sul Mezzogiorno, cominciamo a salutare con fiducia ciò che si riesce ad ottenere: mi riferisco al nuovo Accordo di Programma Quadro per la ricostruzione di Città della Scienza (coinvolti Presidenza del Consiglio, Ministero dell’Ambiente, Regione Campania, Provincia e Comune di Napoli), così come alla nuova Bagnoli attraverso il progetto governativo “Sblocca Italia”. E guardiamo anche all’utilizzo dei fondi comunitari. Il Governo vuole metter mano alle risorse inutilizzate della vecchia programmazione 2007-2013? Si faccia anche quello, insieme alle opere cantierabili nel settennio 2014-2020. E’ una partita da circa 120 miliardi di euro che il Mezzogiorno non può non giocare con la dovuta intelligenza e competenza. Intelligenza nel saper individuare i driver di sviluppo prioritari sui quali far convergere le migliori progettualità; competenza nel saper declinare le fonti di approvvigionamento delle risorse a disposizione e nel coinvolgere le eccellenze nei vari settori – sia imprenditoriali sia nell’ambito della Pubblica Amministrazione – sulle quali innescare un volano virtuoso. Non si tratta di vuota retorica; si tratta di recuperare – come meridionali – la consapevolezza di essere giunti al capolinea. Le chances da Bruxelles non saranno molte, tantomeno quelle da Roma. L’imperativo è quello di dimostrare al resto dell’Italia e alla comunità internazionale che il Mezzogiorno ha la capacità di fare rete, di fare sistema, di creare in una parola le condizioni minime per attivare un processo di ripresa che freni l’emorragia demografica, soprattutto quella dei giovani laureati disillusi dal costruire un futuro possibile nelle loro terre. Tutto questo occorre mettere in moto. Null’altro. Guai ad abbandonarsi ad una cieca speranza che qualcuno ci tiri fuori dal baratro. Quella, ormai, non basta più.