Viviani liberò il suo popolo da quello stereotipo che lo vedeva avvezzo al riso, al canto, alla bonarietà e alla solarità; come se la sofferenza, la disperazione, il dramma fossero elementi estranei alla sua vita. Tutt’altro. Napoli, quella vera, non quella dei luoghi comuni, si trovava ad affrontare problemi gravi, e contro la precarietà doveva combattere la sua lotta quotidiana e cozzare contro una situazione economica non facile soprattutto negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Il popolo di Viviani tira a campare spesso con espedienti; si inventa mille mestieri pur di non morire di fame; ma, nonostante ciò, i personaggi di Viviani sono pervasi da un sano ottimismo, che non porta alla disperazione, ma ad una cupa rassegnazione che diventa la forza per andare avanti e poter ironizzare sulla sorte quasi sempre avversa. I personaggi che affollano le strade ed i vicoli di Napoli sono tanti; disoccupati, prostitute, venditori ambulanti, guappi veri e finti, ladri; sono tutti diseredati che devono trovare il modo per sfamarsi e sopravvivere. I disoccupati sono tanti, “cresceno comm’ ‘e microbe”, ed ecco che chi ha un lavoro, pur ricevendo una paga modesta, non si lamenta; tanti altri sarebbero pronti a sostituirlo per quella paga da fame. Ecco perché la Napoli di Viviani pullula di ladruncoli, perciò rubare diventa una soluzione per potersi sostenere anche perché contro il destino avverso nulla si può fare. Ma questa è la barriera che Viviani vuole abbattere, il finto pietismo e la rassegnazione che nasce dal qualunquismo. Ecco che Viviani dà la parola alla classe operaia, che si è vista promettere un’industrializzazione mai avvenuta, ma continua a lottare, con forza e senza mai abbandonare l’umorismo. E’ stupenda la poesia: “‘A canzona d’ ‘a fatica”: c’è la consapevolezza, da parte dei personaggi, di lavorare per l’altrui benessere, senza però poter raggiungere il proprio.
I muratori, ironizzando, affermano:
Fravecanno ‘a casa ‘o prossimo,
sulo ‘a nostra sta ‘mprugetto:
‘o ‘ngigniere contr’all’architetto
pecchè ‘appaldo nun se sape a chi ‘hann’ a da’.
Nelle sue poesie è cantata la gente umile che lotta per sopravvivere in una società ostile, ma non si dispera, perché è una lotta che conduce nel segno della solidarietà. Le donne di Viviani, poi, sono un punto focale nella vita della strada, semplici, sagge, abituate ad affrontare ogni sorta di problemi, e a tirare fuori le unghie per difendere i propri uomini.
E’ il caso di Graziella, la protagonista della poesia: Canzone ‘e sotto ‘o carcere, che, fidanzata di un recluso, comunica al suo uomo, servendosi di una cantante, gli sviluppi delle indagini, cantando sotto le inferriate della sua cella. Queste sono donne forti che cercano l’uomo protettivo, forte, ma che sia sensibile; donne che all’occorrenza sanno come tenere a bada gli uomini che cercano di allungare le mani.
“La mia musa è facile e scorrevole. Nelle mie poesie non metto niente di più e niente di meno del necessario. Mi piace il quadro disegnato con poche pennellate, ma precise e fluide come la nostra lingua, parlata, senza che il verso risenta del tormento. Sono, direi così, un “poeta pittore”, perché mi piace fare la poesia colorita. A pennellate vivide, come chi descrivendo la colorisca. E ancora: Io non sono un letterato, sono un sensibile, un istintivo; attingo la materia grezza dalla vita, poi la plasmo, la limo e ne faccio opere teatrali, soffermandomi su quanto mi è rimasto impresso, vivendo la mia infanzia a contatto della folla, della folla varia, spicciola, proteiforme, multanime, pittoresca della mia terra di sole”.
La morte di Viviani fu annunciata dai microfoni della radio da Silvio D’Amico; lui se ne andava ma il suo ricordo, vivo e pulsante, restava nella mente di chi lo aveva amato. Sui giornali si leggeva: Un grande attore scomparso, L’arte napoletana in lutto, E’ morto Raffaele Viviani, a testimonianza della perdita di un grande attore-autore di quel tempo “lui se ne va – scriveva Il Mattino – e noi vogliamo tenerci nell’intimo il ricordo del suo volto mezzo plebeo e mezzo nobile, della sua voce soave, o appassionata, o aspra, del suo gestire che punteggiava meravigliosamente le frasi, alla luce della ribalta. Il suo posto rimarrà vuoto forse per troppo tempo; forse, anche per sempre”.
Questa stessa sensazione la provava Mario Stefanile, che amò ricordare Viviani nell’ultima notte in cui lo vide recitare in redazione: “Fu una notte d’estate l’ultima volta che Raffaele Viviani salì in redazione e, nella stanza di Nazzaro, improvvisamente troncato a mezzo un discorso sul teatro, cominciò ad inventare le mille creature di Napoli, rifacendone le voci con la sua voce: roca e disperata, arsa e tetra, furente e appassionata. Nazzaro si stringeva in sé come in un suo freddo subitaneo, io chiudevo gli occhi e avrei voluto anche il cuore chiudere, qualcuno scappava via dalla stanza, certo per non scoppiare in singhiozzi: e Raffaele Viviani, snodandosi dalla sua sedia, movendo intorno il capo come un cieco che cerca il sole o un agonizzante che chiede l’aria che gli manca, s’alzava in piedi, a braccia ciondoloni lungo i fianchi sempre più alto, sempre più antico, sempre più leggendario era nella notte d’estate il venditore d’olive, il venditore di gamberi, il venditore di cocomeri, era Napoli quando si alza nelle notti della sua vita e canta frutti e cibi, calma la fame degli abitanti con la sua stessa nenia di tremila anni fa, avvia al sonno le creature dei vicoli e dei larghi, delle calate e dei fondaci. Poi, s’interruppe di colpo, si guardò intorno smarrito, rise, se ne andò via, rigido ed impettito, rasentando le pareti scomparve. Cominciava così ad andar via per sempre, cantando con la sua voce bruciata e straziante di dolcezza, lasciandoci nello scrigno della memoria, in un enorme silenzio di notte napoletana, le voci delle mille creature che di volta in volta egli fu, e restando in ognuna sé stesso, l’uccello di fuoco del nostro teatro, del teatro di ogni tempo e di ogni terra, il miracolo in terra di un’esplosione di vita che non si rinnoverà mai più”.