“Il mondo degli oggetti negli ultimi vent’anni è radicalmente mutato. Si è progressivamente smaterializzato. Molti di quegli oggetti “persi” portavano con sé una ritualità (…) pensiamo solo alle foto di famiglia, ai dischi di vinile, alle enciclopedie di carta o ai disegni su tela. O magari alla forza che nell’immaginario collettivo hanno avuto luoghi –oggetto come le cabine telefoniche”.
Queste le parole usate dalla scrittrice Carla de Falco per introdurre il suo libro di poesie “La voce delle cose” (Montag edizioni), una raccolta poetica che si autodefinisce come “testo di resistenza” dove le cose fungono proprio da veicolo di contro-azione, un’azione uguale e contraria alla contrazione stessa: difatti, la denuncia lirica della De Falco, passa attraverso il voler ridare alle cose la loro estensione: “Non ho nulla contro l’informatizzazione e la tecnologia – dice – ma mi sono domandata spesso che voce abbiano, oggi, tanti oggetti evoluti in una forma d’apparente inconsistenza materica, sempre più piccoli, senza più odore né spessore, oggetti che affollano i dati dei nostri pc e dei nostri telefoni, consumati in fretta, con voracità bulimica che tutto brucia e nulla, forse, davvero vive”.
Non è un caso, dunque, che la poetessa nonché professoressa, citi Antonio Machado e le sue Solitudini: “Il peggio che possa fare un poeta è chiudersi in casa con la purezza, la perfezione, l’eternità e l’infinito”. Eppure, come ho voluto evidenziare nel mio intervento critico durante la presentazione del libro (20 marzo, presso la Fondazione De Martino), le cose sono oggetti inermi, senza volontà né libertà, né possibilità alcuna di linguaggio e quindi voce, finché non sopraggiunge l’uomo a conferir loro estensione psichica attraverso un ricordo, un sentimento, un’emozione come quel “portone già lontano che allatta il ricordo di un amore”. Ecco perché, sempre a mio avviso, la poetessa scrive che gli “oggetti hanno dentro pezzi d’uomo e sussurrano l’abbraccio del ricordo”, ed ecco sempre perché spetta alla poesia farsi carico di queste voci-non voci, di questo non-detto che aspetta di essere professato al mondo per non scomparire nell’oblio della dimenticanza, nel fluire indifferente del tempo che tutto annienta: “Sognando la formula o l’antidoto per ingannare il tempo ed il suo pianto”. Antidoto affidato, dunque, alla luce della poesia che può rischiarare la notte, “accorciare distanze tra parole spaventate”.
Il filosofo francese Lyotard parlava di “dissidio” per definire il momento in cui tra due uomini uno dei due non ha voce per esprimere il proprio punto di vista, una posizione non contemplata dal linguaggio corrente, dall’idioma convenzionale. Questo impasse linguistica sarebbe, a mio avviso, superata dal coraggio poetico di trovare altri modi per dare voce all’indicibile. Bella a questo proposito la citazione di Giuseppe Ungaretti che introduce le poesie della De Falco: “Non so se la poesia possa definirsi. /Credo e professo che sia indefinibile”. Mi piace aggiungere che probabilmente la poesia è indefinibile proprio perché affronta l’indefinibile, ciò che ancora non è definito, che non ha trovato circoscrizione all’interno dell’attuale universo linguistico. Scrive Carla De Falco: “Ho scritto la voce delle cose perché credo profondamente nella magia della poesia che prova a descrivere i particolari di oggetti o di scene e, nel farlo, riesce a trasformarli in qualcosa di diverso, al punto da farceli apparire nuovi, come se li vedessimo per la prima volta”.
Alla capacità del poeta di dare voce alle cose ha fatto riferimento anche il Presidente dell’Associazione Habeas Corpus, Umberto Schioppo, al quale è stato riservato il compito di introdurre l’evento organizzato proprio dalla suddetta associazione. La discussione è stata moderata dall’impeccabile Costanzo Ioni, con i saluti istituzionali di Enrico Von Arx e Mario Coppeto, Presidente della V Municipalità di Napoli, il quale si è soffermato sulla significativa presenza di molti giovani durante la presentazione e sull’apertura di nuovi spazi di cultura, come il nuovo teatro “Zona Vomero” (in via Cilea), 60 posti a sedere con la direzione artistica di Michele Caputo, attività che manifestano come, nonostante le molteplici chiusure di biblioteche in primis, dal “basso” (come attesta la vicenda della libreria Iocisto, ad azionariato popolare) venga fuori un impetuoso e coraggioso “volere a tutti i costi salvarci con la cultura”. Gli interventi sono stati arricchiti da intermezzi musicali di Alessandro Vecce e dalle letture poetiche teatralizzate eccezionalmente dagli attori Anna Primo e Gianni Caputo.
Vale la pena ricordare la ricorrenza il 21 marzo della giornata mondiale della Poesia pensata nella trentesima Sessione della Conferenza Generale Unesco (1999) nonché il compleanno di una grande poetessa italiana, Alda Merini, una data simbolo istituita per riconoscere il ruolo privilegiato della Poesia nella “promozione del dialogo interculturale, della comunicazione e della pace”, come si legge nel sito dell’Unesco; un compito che non può certamente farci sfuggire l’approvata funzione poetica di rivelare le diversità, annunciandole, dando loro voce e evitando i dissidi di lyotardiana memoria.