Cultura

L’ABECEDARIO DEI SOCIAL NETWORK: FILMARE, NON GUARDARE

Se non mettiamo un filtro elettronico tra noi e quello che vediamo, un terzo occhio che  affidi il vissuto a una memoria artificiale, è come se non avessimo visto e vissuto niente. Paghiamo un biglietto per vedere finalmente dal vivo  l’esibizione di un eccezionale musicista o cantante, la performance di uno straordinario attore teatrale e poi…non li vediamo, ma li filmiamo. E quando riprendiamo, siamo attentissimi non a quello che accade  sul palco, ma a quello che ne filma il nostro apparecchio. Sostituiamo l’occhio della telecamera al nostro. Siamo sul luogo dell’evento, ma è come se ce lo stesse mostrando un altro che c’era mentre noi eravamo a casa nostra o in una pausa di lavoro. Alla vita  preferiamo la sua rappresentazione, invece che ad una memoria selettiva, ci affidiamo a una meta memoria che tutto conserva e niente privilegia.

Non fruiamo più dell’esperienza attraverso il nostro corpo, ma attraverso uno strumento elettronico di mediazione dell’esperienza stessa. Non godiamo neanche più di momenti reali di  socializzazione con chi ci sta vicino (in un ristorante, un treno, una sala d’aspetto), impegnati come siamo a mandare sms e a chattare con chi sta altrove, ci isoliamo e andiamo in un’altra dimensione per condividere con chi è fuori. “Nella società della mediatizzazione – scrive il sociologo Vanni Codeluppi – conta ciò che è dentro il medium: la vita è sul web. L’esperienza diretta vale meno di quella mediata. Quello che stai vivendo in diretta vale meno se non è condiviso, amplificato, diffuso, archiviato telematicamente”. E il filosofo Remo Bodei: “Non c’è spettacolo o evento in cui in cui non si vedano tutti gli spettatori con un aggeggio in mano a filmare. Siamo diventati uno spinotto del nostro telefono”.

Si sta avverando,  40 anni dopo la pubblicazione del saggio “La società dello spettacolo”, la profezia del suo autore, Guy Debord, secondo la quale non sono solo i media che vogliono spettacolarizzare tutto, ma tutti noi che stiamo diventando spettacolo a noi stessi. Concepiamo noi stessi come attori di uno spettacolo planetario, e se non partecipiamo ci sentiamo esclusi. Ci siamo talmente abituati all’idea che tutto è rappresentazione che se non ci infiliamo dentro un paesaggio che sto vedendo o un concerto che stiamo ascoltando, è come se non l’avessimo vissuto davvero. La vita non è più riconoscibile come tale se non è rappresentata.

Ma quale videata potrà mai restituire l’attimo fuggente? Talora guardo le immagini della Monument Valley in Arizona,  di  Petra la città di pietra rossa in Giordania, del campo di sterminio di Birkenau, di un incontro con un attore o scrittore o musicista. Nessuna mi potrà ridare le emozioni provate in loco, se non l’infallibile setaccio della memoria. Allora non devo guardare, ma chiudere gli occhi e richiamare il ricordo. Un’operazione non visiva ma mentale.

 

Foto

 

Su Facebook milioni di foto si offrono al nostro sguardo in un flusso continuo. Riportiamo una riflessione di uno dei maestri della fotografia italiana, Mario Dondero: “Questa invasione di telefoni che non servono per parlare, che permettono di fare uno scatto e connettersi subito al mondo, la guardo con una dose di curiosità ma anche di sospetto. Quello che conta non è mai lo strumento che si usa ma il risultato che si raggiunge. Contano la testa, la sensibilità, la cultura del fotografo. I telefonini sono strumenti che assecondano la pigrizia: la faciltà e la rapidità con cui si fotografa bloccano la riflessione sul vedere, non c’è più meditazione sull’atto creativo. (…) Certo ci sono aspetti positivi: si offre a tutti la possibilità di una immagine. Inoltre nei reportage la possibilità di  vedere subito le foto accelera i tempi di lavoro;  si può mettere a disposizione di tutti una immagine di denuncia in tempo reale. Ma c’è anche un grande rischio: quello di banalizzare ogni cosa, mettere sullo stesso piano foto di critica sociale con immagini di costume e gossip. Il tempo talvolta costringe  a pensare meglio a quello che si fa. E il digitale azzera questo tempo prezioso”.

 

Funes el memorioso

Umberto Eco una volta ha detto che Internet assomiglia a Funes el memorioso, protagonista di un racconto dello scrittore argentino Jorge Luis Borges: personaggio dotato di una memoria infinita, ricordava ogni cosa ma, al tempo stesso, era incapace di ragionare perché inabile al filtro, alla selezione. Quel filtro che, nel caso di un filosofo o di uno scrittore, diventa importante perché la sua poetica o la sua capacità analitica ci vengano restituite con intelligenza. E invece tutto si risolve in una citazione, uno stralcio, un incipit, un finale che, per il loro carattere reiterabile, ne riducono la complessità. Con il rischio di un fraintendimento mescolato ad una generale banalizzazione del contenuto.

La Rete  ci restituisce la letteratura, l’arte, il pensiero scientifico  spesso in modo fuorviante, stravolge un contenuto ingigantendo dettagli inutili, isolandoli dal contesto, o diffonde, ad esempio nel caso dell’informazione medica, allarmismi inutili. Parlando in termini aristotelici, il pathos, cioè la mozione degli affetti, il coinvolgimento emotivo, ha la meglio sull’ethos e sul logos, cioè conoscenza, competenza, razionalità. Ed allora, invece di leggere i testi poetici di Emily Dickinson,  un  discorso di Sandro Pertini o Che Guevara o Gandhi, un saggio di Pier Paolo Pasolini, l’analisi accurata di un economista o uno scienziato, quali Marx e Einstein ( per citare alcuni di quelli che ricorrono frequentemente), meglio un messaggio preconfezionato: un volto riconoscibile associato ad una sentenza efficace e, ovviamente, buona per ogni momento.

 

 

 

 

 

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