Il nostro ordinamento disciplina solo due tipi di adozione: la prima nazionale o internazionale, detta anche legittimante di cui agli artt. 6 e ss. della legge n.183 del 1984 così come modificata dagli artt. 6 e ss. della legge n. 149 del 2001, disposta in presenza di uno stato di abbandono materiale e morale del minorenne e la seconda comunemente definita “adozione in casi particolari” di cui all’art. 44 della legge n. 183 del 1984.
Il ricorso a quest’ultima può essere disposto solo in casi tassativamente previsti dalla legge e solitamente, tranne casi eccezionali, l’adottato antepone al proprio cognome quello dell’adottante, dato questo non di scarsa importanza e che rileva con evidenza una relazione a tre completamente diversa. Presupposto fondamentale di questo tipo di adozione è che i genitori dell’adottando diano il consenso se nella condizione di farlo. I legami con la famiglia di origine in questi casi permangono e gli adottandi non acquistano alcun diritto sugli eventuali beni del minore adottato. Il minore, invece a tutti gli effetti è equiparato ad un figlio legittimo e concorre, pertanto alla divisione ereditaria dei beni degli adottanti. È bene specificare, inoltre che questo tipo di adozione può essere “revocata”.
In questa logica si pone quella che viene comunemente definita “adozione mite”, che si pone come una sorta di zona grigia tra l’adozione in senso proprio ed affidamento familiare e, che viene prospettata e sperimentata dal Tribunale per i Minorenni di Bari, presieduto dal dott. Francesco Paolo Occhiogrosso, non disciplinata espressamente dalla legge, anche se riconducibile in qualche misura nell’alveo dell’art. 44 della legge n. 183 del 1984. Appare evidente la necessità di un ordinamento capace di fornire risposte mirate ed adeguate.
Spesso l’ambiente familiare d’origine del minore, pur non essendo in grado di accogliere e soddisfare gran parte dei bisogni essenziali del minore, è tuttavia capace di fornire ad esso un qualche apporto positivo. La condizione presente in questi casi e la impossibilità di un miglioramento nel tempo della situazione esistente, rendono auspicabile il ricorso all’adozione mite, come risposta adeguata posta in essere dal sistema. Questo tipo di risposta è ben lungi dall’essere pacificamente accettata ed in tal senso è opportuna la lettura della recente sentenza della Corte della C.E.D.U del 21 gennaio 2014 nel Caso ZHOU c. ITALIA. In questa occasione, la C.E.D.U ha condannato per violazione dell’art. 8 della Convenzione il nostro Paese, per lesione del diritto al rispetto della propria vita familiare, anche laddove ci si trovasse in presenza di difficoltà oggettive.
Lo Stato deve sostenere, aiutare, disporre strumenti che consentano al minore di preservare il rapporto con la propria famiglia d’origine in tutti i modi possibili. L’adozione definitiva è l’extrema ratio a cui ricorrere, ove non è stato possibile intervenire e risolvere diversamente la grave crisi familiare, ma sempre nel solo interesse del figlio minore. La C.E.D.U ha riaffermato il principio secondo cui il requisito della “necessità in una società democratica”, previsto dal secondo paragrafo dell’art. 8 della Convenzione, per giustificare un’ingerenza, fa necessariamente riferimento a dei “bisogni sociali imperiosi” commisurati allo scopo legittimo da esso perseguito. Ha, altresì, ribadito la C.E.D.U che qualora non vi siano maltrattamenti, ma anzi vi sia ancora un rapporto affettivo stabile tra genitori e figli, lo Stato ha il dovere di permettere che questo legame venga mantenuto.
In quest’ottica, l’adozione mite, pur richiesta dalla madre, non era stata minimamente presa in considerazione dai giudici, i quali spesso divengono arbitri assoluti, ma sono anche messi nella difficoltà di interpretare un sistema normativo assai lacunoso, ma soprattutto inidoneo ad offrire delle risposte valide ed eque. L’adozione mite non è esente da critiche, da dubbi e da riserve, ma può essere anche un punto di partenza che consenta di portare al centro dell’attenzione il minore con le sue difficoltà, anche di adattamento ad una nuova situazione. A differenza di quanto accade nel caso di adozione legittimante, l’adozione mite, pur dando luogo ad uno stabile e duraturo rapporto con l’adottante, prevede (tra l’altro) che sia mantenuta – nei tempi e nei modi stabiliti dal Tribunale – una continuità di rapporto anche con la famiglia di origine. Questa “doppia appartenenza” appare interessante sia dal punto di vista psicologico che nell’ottica delle relazioni tra i soggetti coinvolti.
Nella recente prassi del Tribunale di Bari, “qualora l’affidamento familiare superi la scadenza prevista ed anzi si protragga per vari anni oltre tale termine, gli affidatari del minore vengono invitati a presentare – sempre nel caso in cui il rientro nella famiglia di origine non risulti praticabile – una domanda di adozione mite come dimostrazione della loro disponibilità a modificare la qualità del rapporto già da tempo esistente con il minore”. Con il provvedimento di adozione (mite) la famiglia affidataria diventa adottante “in un modo speciale” e quella di origine resta tale ma in una modalità anch’essa necessariamente diversa. Dunque, il minore passa da un gruppo familiare ad un altro, passa dall’appartenenza definita “affido” a quella definita “adozione”. Anna Oliviero Ferraris in una serie di studi ha sottolineato la necessità dei bambini di avere punti di riferimento fisici e psicologici, sempre possibilmente chiari ed individuabili.
È, infatti, questo tipo di condizione che determina una costruzione dell’autostima, della sicurezza e dell’identità, almeno durante una prima fase della vita. Sotto questo profilo, il provvedimento relativo all’adozione mite ben potrebbe rappresentare una vera e propria panacea per i cosiddetti “bambini nel limbo”, potrebbe ed appagante. Nei procedimenti giuridici che toccano persone e relazioni dovrebbero evitarsi i tempi lunghi, dilatati, bisognerebbe, invece soffermarsi sull’intreccio tra tempo ed elemento psicologico/relazionale e tempo giuridico.
Da tempo ormai siamo consapevoli, noi operatori del diritto che la semplice definizione giuridica è si, un elemento importante, ma che, in ogni caso, non è sufficiente ad eliminare la confusione che si determina in molte circostanze. Relativamente all’adozione mite vanno sicuramente definiti ed inquadrati i legami, i ruoli, le aspettative e le funzioni nell’ambito di due storie familiari diverse, ma complementari. L’affido e l’adozione muovono dalla scelta consapevole, socialmente ed umanamente importante di prendersi cura di un figlio non proprio.
Cosi come la nascita di un figlio naturale, la decisione di accogliere un figlio non proprio comporta la creazione da parte della coppia e della famiglia allargata tutta di uno spazio “fisico e mentale”, uno spazio che sia in grado di inglobare ed accogliere. Eccola la parola magica “accoglienza”. Molti autori hanno spiegato in maniera efficace come spessissimo proprio nella fase pre-adottiva i genitori che accolgono vorrebbero un figlio privo di storia, un “figlio” che non abbia alle spalle accadimenti a volte, o forse dovrei dire quasi sempre, dolorosi e difficili con i quali doversi confrontare; l’adozione viene vissuta come un’esperienza più simile alla genitorialità naturale e relativamente alla quale il legame con il bambino sembra potersi stabilire con maggiore facilità. Nel tipo di adozione mite, invece, sin da subito questo comprensibile desiderio è di per se irrealizzabile: i genitori dovranno convivere con il passato e dovranno costruire un futuro di inclusione e non di “rottura”.
Dovranno partire dalla storia del bambino, prenderne atto, comprenderla, accettarla e viverla. Nel caso dell’adozione mite, dunque, il prendersi cura di un bambino nato da altri non è che una parte del progetto: in tale decisione vi è la piena consapevolezza e l’enorme responsabilità di favorire e consentire la presenza della famiglia d’origine del bambino e di tutto quanto a questa sia legato. Gli studi si sono quasi sempre concentrati sulla famiglia che adotta e sul suo ruolo, e sulla posizione del minore che vi fa ingresso, poca attenzione è stata riservata alla famiglia naturale che perde un legame, che perde in qualche modo la propria identità, la propria struttura e che deve fare i conti con sensi di colpa e fallimento. Nasce nell’adozione mite una nuova e diversa identità familiare. Si esplica in questo istituto quel principio di mitezza giuridica che richiede una necessaria comunicazione tra tutti gli interlocutori, privilegiando l’ascolto e la tutela della famiglia e della realizzazione della personalità del minore.
Il bambino si colloca tra due storie. Nel suo svolgersi ideale, questo processo di collaborazione e consenso dovrebbe portare ad una integrazione in cui le diversità sono in un certo senso valorizzate e in cui vuoti e mancanze trovano la strada per un senso altro. In tale relazione il minore è parte attiva e principale. Gli adulti di riferimento hanno il doveroso compito (con responsabilità diverse) di tutelare la consapevolezza di cui il minore è portatore sia dal rischio di una eccessiva responsabilizzazione riguardo alle decisioni da prendere (specie in casi spesso caratterizzati da una “adultizzazione” precoce) che da ostilità e indifferenze più o meno manifeste tra i soggetti coinvolti. Tutto questo ha una sua logica ed è pienamente realizzabile solo se esiste una rete esterna perfettamente funzionante, fatta da soggetti competenti tecnicamente ed emotivamente.
Ed è opportuno precisare che il buon funzionamento della rete “esterna” (servizi, sistema giudiziario) diventa nel caso dell’adozione mite un’assoluta necessità. I servizi dovrebbero essere adeguatamente organizzati, ed i soggetti competenti e, coinvolti emotivamente. La valutazione del singolo caso consente una tutela massima per i minori, ma tutto questo sarà possibile solo attraverso un intervento attento e puntuale ad opera del legislatore che ripensi integralmente l’intero sistema, in maniera complessiva e strutturale. Uno Stato che si rispetti non può non prendersi cura dei propri figli!