Tre corsi di laurea, uno triennale e due magistrali. L’offerta dell’Università di Salerno dedicata alle Scienze dell’Educazione comprende un corso di studi di primo livello, omonimo, e due di secondo livello: Scienze Pedagogiche e Educatori professionali ed esperti della Formazione continua. Corsi di laurea che negli ultimi anni hanno visto ridursi il numero degli iscritti. Le ragioni ce le ha spiegate il professor Francesco Piro, dal 2011 a capo dell’ADSE, l’area didattica di Scienze dell’Educazione: «la diminuzione del numero degli iscritti è stata voluta perché tre anni fa abbiamo deciso di introdurre il numero programmato. Una scelta dolorosa perché, se è vero che vengono ammessi meno studenti ai nostri corsi di laurea, è altrettanto vero che gli aspiranti continuano a essere intorno alle 700 unità. Abbiamo però deciso di prendere solo un terzo di questi per una serie di ragioni. Innanzitutto, la difficoltà di gestione degli studenti per la progressiva riduzione del corpo docenti e l’insufficienza di aule; a tal proposito è bene sottolineare che la nostra didattica si avvale dell’uso di computer per la proiezione di slide, strumenti in presenza dei quali la legge impone che le classi non siano sovraffollate. In secondo luogo, per l’impossibilità di assicurare a tutti e 700 gli iscritti un tirocinio adeguato o quantomeno decente; poi per la crisi occupazionale che interessa anche questo corso di studi e, infine, perché ci siamo resi conto che i punteggi bassi ottenuti dalle matricole alla prova iniziale di comprensione dei testi sono spia di insuccesso nella carriera universitaria o di conclusione degli studi fuoricorso».
Proprio quello dei fuoricorso è uno dei problemi delle lauree afferenti all’area delle Scienze dell’Educazione presso l’Unisa: sono circa 1200 gli studenti che non terminano gli studi nei tempi richiesti contro i 1000 che, invece, si laureano in tempo. Tra le cause figurano sicuramente la tendenza, soprattutto dagli iscritti un po’ più avanti negli anni, di intervallare studio e lavoro, non facendo dell’università l’attività prevalente delle proprie giornate; ma pure la preparazione piuttosto scadente dei diplomati italiani, che rasenta quasi l’analfabetismo, per cui si rendono necessarie iniziative di supporto o il cosiddetto “anno zero”, in cui la matricola recupera il debito formativo accertato in ingresso. «Tutto questo però è troppo oneroso in termini di risorse umane ed economiche per il dipartimento, per cui abbiamo deciso di essere più selettivi. Consideri inoltre – continua l’ordinario di Storia della Filosofia – che quello dei fuoricorso è un parametro utilizzato nelle ricerche, ad esempio del Censis, che relegano le università del Mezzogiorno agli ultimi posti nelle classifiche ufficiali. Anche se, a mio parere, non è necessariamente spia di una cattiva didattica». Le lauree magistrali, anch’esse oggi a numero chiuso, danno la possibilità di approfondire due diversi ambiti disciplinari: quello sociologico, nel caso degli “Educatori professionali ed esperti della Formazione continua” e quello pedagogico – filosofico per quanto riguarda “Scienze Pedagogiche”. Quest’ultimo corso, dando accesso al TFA e quindi aprendo le porte all’insegnamento, è il più gettonato tra i laureati di primo livello. «Nelle lauree magistrali recentemente la conoscenza della lingua inglese diventa un elemento selettivo perché ci siamo accorti di essere di fronte a studenti molto motivati, ma che non hanno un livello di conoscenza della lingua straniera pari al B2. Mentre l’inglese è fondamentale. Non a caso altri due parametri utilizzati nelle ricerche sulla qualità delle università sono il numero di studenti che partono in Erasmus e quello degli studenti stranieri che scelgono di venire a studiare all’Unisa. Su entrambi i fronti non abbiamo buone performance. Il problema più rilevante però per i laureati di Scienze dell’Educazione è oggi quello del mancato riconoscimento della loro professionalità per cui si registrano percentuali di occupati al di sopra della media delle facoltà umanistiche, ma stipendi medi piuttosto bassi. Secondo Almalaurea, nel 2011 a fronte del 45% dei laureati occupati entro i due anni dalla conclusione degli studi, lo stipendio medio si aggirava intorno ai 500 euro per le triennali e agli 800-1000 euro per le magistrali, per lo più con contratti atipici e precari.
«Non esiste una definizione precisa a livello nazionale di cosa debba fare un educatore. Sarebbe riduttivo ragionare solo nell’ottica dell’accesso all’insegnamento – spiega il professor Piro – l’educatore teoricamente si inserisce nel mondo delle professioni all’interno delle carceri, nei servizi sociali, nelle case famiglia, laddove si necessita di una terapia psicopedagogica, ad esempio nelle scuole, diventa una figura cruciale nel settore dell’intermediazione culturale. Il problema è che non c’è una legge specifica che dica quali educatori vanno inseriti in ognuno di questi contesti e quali competenze devono avere. Ed è chiaro che se consenti l’apertura di un asilo nido senza accertare il possesso di determinate competenze, il rischio è di trovarsi di fronte a casi di cronaca sconcertanti. Finché si resta nella vaghezza, raramente si ottengono risultati concreti». Il non riconoscimento delle competenze apre la strada a comportamenti sbagliati da parte dei datori di lavoro pubblici e privati, accentuando lo squilibrio tra bisogno occupazionale, testimoniato dalle percentuali degli occupati, e livelli di reddito degli educatori. «Le racconto un aneddoto – continua Piro – su Wikipedia la definizione della parola educatore è cambiata già tre volte. L’educazione è una grande scommessa, soprattutto oggi, per la gestione e risoluzione dei problemi sociali. Servono competenze psicologiche, sociologiche e pedagogiche e la sfida, ma pure la prospettiva, sarebbe arrivare alla creazione di operatori dei problemi sociali. Attualmente risiede in Parlamento una proposta di legge per il riconoscimento della professione». Prima firmataria della proposta, presentata lo scorso ottobre, la deputata Vanna Iori che mira all’istituzione di un albo per educatori e pedagogisti. «Anche in questo caso – conclude il responsabile dell’ADSE – bisogna guardarsi bene dal favorire alcune corporazioni a scapito di altre perché esistono tensioni tra chi ha una formazione di tipo sanitario e chi no, con i primi che vorrebbero il monopolio sulle attività di tipo riabilitativo».