Uno studio di Oxford evidenzia i motivi per i quali le app che dovrebbero garantire il tracciamento dei pazienti positivi a COVID-19 potrebbero non funzionare.
A quasi due mesi dalla dichiarazione di pandemia comunicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità lo scorso 11 marzo, in diversi Paesi tra cui l’Italia ci si avvia verso un tentativo di ripresa graduale delle attività economiche e si studiano misure per tentare di convivere con COVID-19 almeno fino all’arrivo di un vaccino affidabile.
I pilastri della nuova normalità saranno il distanziamento sociale, i dispositivi di protezione personale e, per molti governi, le app di tracciamento dei contatti (contact tracing). Si tratta di app che utilizzano tecnologie che consentono la localizzazione (GPS, Wi-Fi, Bluetooth…) e che hanno l’obiettivo di registrare spostamenti e “contatti” delle persone: nel caso in cui una risultasse positiva al coronavirus, permetterebbero di risalire, a ritroso, alla rete di persone che hanno incontrato o semplicemente avvicinato nei giorni precedenti e individuare (e allertare) coloro che sono a rischio di contagio.
IL PREZZO DELLA SALUTE. Si tratta insomma di tecnologie che dovrebbero permettere di scambiare la libertà di movimento e di lavoro delle persone con alcune informazioni personali, che pur nel rispetto delle norme sulla privacy da più parti sono considerate un’intromissione non trascurabile nella vita di ciascuno.
Il tema è caldo, al punto che nel nostro paese la app Immuni, quella scelta dal Governo tra le oltre 270 proposte da aziende e centri di ricerca, è finita sotto la lente di ingrandimento del COPASIR, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.
Ma queste app sono davvero utili per limitare gli effetti devastanti di una pandemia come quella da COVID-19? Secondo un recente studio dell’Univeristà di Oxford, queste tecnologie potrebbero risultare inefficaci per più di un motivo.
Il primo riguarda il numero di utenti: secondo gli scienziati dell’ateneo britannico una app di contact tracing potrebbe dare risultati utili e affidabili se utilizzata almeno dell 56% della popolazione.
Gli esperti hanno effettuato una simulazione su una città occidentale da 1 milione di abitanti: per avere una copertura significativa della popolazione la app dovrebbe essere installata sull’80% degli smartphone. Una percentuale difficile da raggiungere anche per le più grandi aziende del panorama Internet mondiale.
Cuore delle app di contact tracing è la tecnologia Bluetooth: una volta installata la app il nostro telefono dovrebbe tenere traccia di tutti gli altri smartphone ai quali si avvicina e che utilizzano l’applicazione. Quando una persona viene indicata come positiva al COVID-19, il telefono ricostruisce la rete di smartphone, e quindi di persone, con cui è entrata in contatto e attiva i necessari protocolli di segnalazione per l’isolamento, sia al diretto interessato che, eventualmente, alle autorità sanitarie.
I ricercatori britannici rilevano però come il Bluetooth abbia un raggio d’azione ben superiore ai 2 metri previsti dalle norme di distanziamento sociale, e come possa tranquillamente passare attraverso muri o barriere di protezione in plexiglass. Il numero di falsi positivi rischia così di crescere a dismisura.
Altre perplessità sono state poi sollevate dagli esperti di sicurezza informatica: il protocollo Bluetooth, soprattutto sui telefoni più vecchi o non aggiornati, è soggetto a diverse vulnerabilità. Un malintenzionato potrebbe sfruttarle per intrufolarsi negli apparecchi di ignari cittadini e impossessarsi di informazioni riservate.
C’è poi un tema legato alla frequenza di rilevazione: per essere davvero affidabile la app dovrebbe rilevare i contatti bluetooth in maniera continua e non ogni 5 minuti come la maggior parte delle applicazioni analizzate dai ricercatori.
I dubbi insomma sulla reale efficacia di queste tecnologie sono ancora tanti, non ultimi quelle relativi alle exit strategy una volta che l’emergenza sanitaria sarà finita: chi garantirà lo spegnimento del sistema e la cancellazione dei dati?
Nonostante tutto molti Paesi si apprestano a lanciare queste applicazioni sugli store: tra i primi potrebbero esserci la Germania e l’Australia, mentre in Italia la questione è ancora sui tavoli della politica.