Un giorno un signore va in cucina a prepararsi il caffè, apre il rubinetto e non esce acqua. Allora chiama l’idraulico, che arriva e comincia a smontare e rimontare i tubi. Non c’è niente da fare, l’acqua continua a non arrivare. A un certo punto si chiede “ma vuoi vedere che c’è qualcosa da fare prima?” Segue le tubature e arriva in cantina, dove si trova davanti al rubinetto centrale, quello che porta acqua a tutti i rubinetti del condominio. Prende i ferri, si rimette a lavorare, e alla fine torna in cucina, apre il rubinetto e l’acqua esce. È come se per trentatré anni io mi fossi occupato del rubinetto della cucina. Per quanti sforzi si facessero l’acqua non usciva, cioè la giustizia non funzionava. A un certo punto mi son chiesto “ma non è che per far funzionare la giustizia è necessario guardare quello sta prima dei tribunali, delle corti, dei giudici, le sentenze?”
Gherardo Colombo è un ex magistrato lombardo, ormai ritiratosi dal servizio, che ha contribuito in passato a celebri inchieste come quella sulla P2 o Mani pulite. È fondatore dell’associazione Sulle regole, che nasce dalla riflessione sui temi già contenuti nell’omonimo libro di cui è autore, e che ieri ha provato a spiegare in un incontro, a Napoli, al Centro Diocesano di Pastorale Diocesana, dal titolo Una giustizia riparativa possibile.
Di seguito riportiamo una buona parte del suo discorso.
Io comincerei col raccontarvi che sono stato magistrato per oltre trent’anni, prima giudice per quindici anni, poi pubblico magistero per sedici e di nuovo magistrato per altri due anni, finché sono passati nove anni da quando mi son dimesso, pur potendo continuare a fare il giudice di cassazione. Mi sono dimesso per una serie di ragioni, tra cui anche una ragione, quasi decisiva, che riguarda il tema di cui parliamo stasera.
Quello che comunemente si pensa essere il rimedio normale alla devianza, alla commissione di un reato, è il carcere. Chi commette un reato finisce in carcere. Io ho richiamato il fatto di essere stato un magistrato per così tanto tempo perché mi succedeva, in qualità di magistrato penale, di mettere le persone in prigione. Io mi sono iscritto a Giurisprudenza perché volevo fare il giudice penale, e credevo che il carcere fosse utile. Non vi sto a raccontare il perché, ma sta di fatto che, via via che il tempo passava, mi convincevo che invece non è così.
Il carcere dovrebbe servire per garantire la nostra sicurezza, e invece non è così. La Costituzione dice, con estrema chiarezza, all’articolo 27, che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, e il carcere non lo fa. Contemporaneamente, nello stesso articolo dice che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. La Costituzione parte dalla constatazione che tutti noi siamo degni, e siamo degni tanto quanto gli altri, perché siamo esseri umani. E siamo esseri umani anche se ci è successo di commettere un reato. Lo scopo deve essere quindi quello di recuperare la nostra dignità.
Queste sono tutte cose che il carcere non fa. Sottoponiamo le persone che stanno in carcere a trattamenti degradanti, perché non hanno uno spazio sufficiente per vivere, perché l’igiene non è curata, perché salute è curata in un modo diverso rispetto a coloro che stanno fuori, perché l’affettività è assolutamente esclusa.
Allo stesso tempo il carcere non garantisce la nostra sicurezza. Di solito si dice che il tasso di recidiva in Italia è del 69-70%, invece è ancora più alto perché non si tratta solo di recidiva, ma si tratta di chi essendo già stato in carcere, e almeno due volte su tre poi torna in carcere.
Non è attraverso una costrizione, l’essere chiuso in una gabbia, che uno capisce [l’errore che ha commesso, ndr], ma è attraverso altro, tramite dei percorsi e degli aiuti. Un percorso possibile sarebbe quello che conduciamo sotto il nome di giustizia riparativa.
Che cosa dà dunque il sistema carcerario a una persona che ha subito un reato? Le dà soltanto la soddisfazione del desiderio di vendetta, la quale è genericamente considerata un sentimento negativo. Salvo che non si attivi un risarcimento pecuniario. Di che cosa ha bisogno quella persona? Certo, è importante sapere che quella persona non commetterà altri reati, ma non è che c’è anche un’esigenza più profonda, che riguarda il proprio essere, la propria identità?
Io credo che chi subisce il male si senta in qualche modo un po’ squalificato, e ha una domanda che lo perseguita, “perché a me?” Chi può dare una risposta a questa domanda, è soltanto chi ha fatto il male. Come può allora ripararsi la vittima, riacquistare la propria dignità? È necessario un percorso attraverso il quale chi ha fatto del male riconosca che non andava fatto, e possa riparare al male che ha fatto.
È quindi necessario che la vittima, come dice Agnese Moro, smetta di sentirsi inchiodata al male che ha subito. La sofferenza c’è sempre, ma se non riesci a liberarti di quel fatto smetti di esistere.
Anche noi saremo obbligati ad avere un sistema di giustizia riparativa perché ce lo chiede l’Unione Europea. Non siamo gli unici inadempienti, però ci sono tanti Paesi che ce l’hanno, l’Austria, il Belgio, la Germania, la Francia. Il sistema può essere alternativo alla giustizia tradizionale, o anche parallelo. Sono state condotte delle ricerche che hanno dimostrato come non si possa fare questo percorso se non si accetta volontariamente. E sono tantissime le persone che accettano, in percentuali elevatissime, così come è alta la percentuale di successo del percorso.
Una esperienza di mediazione è stata fatta tra ex appartenenti alla lotta armata e vittime del terrorismo. È un percorso che dura ancora adesso da circa sette o otto anni. Citavo prima Agnese Moro, la figlia di Aldo Moro, ucciso dalle brigate rosse, con alcuni membri delle quali ha compiuto questo percorso. Sono persone che si parlano, e che vanno a parlarne in giro per l’Italia. Noi siamo dell’idea che non appena uno commetta un reato, deva essere escluso per sempre dalla comunità. Ma i figli di chi è stato ammazzato hanno bisogno di essere liberati da quel dolore profondo, da quell’odio. È importante riuscire a far subentrare all’istinto di difesa la ragionevolezza, per entrare in questa situazione e verificare se esistano delle possibilità di recupero.