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L’UOMO CHE VISSE DUE VOLTE. IL PRETE ABBANDONATO

Negli ultimi anni si è cominciato a parlare anche pubblicamente dei cosiddetti preti sposati. Sui giornali, per televisione, come dibattito interno attraverso lettere e testimonianze sulla rivista Vocatio ecc.

Parlo con ritegno e imbarazzo, della mia esperienza di prete “ridotto allo stato laicale”. Volevo scrivere mezza paginetta ma la pasta mi si è lievitata in mano. Chiedo scusa.

Sono diventato prete nel 1963, nel ‘76 mi sono sposato, vivo a Modena nel quartiere dove sono stato parroco, dove ha sede anche la Comunità di Base del Villaggio Artigiano di Modena. Premetto che sono felice e le parole che dico sono dette per amore. Rivolte anche a molti preti che dovrebbero cercare una nuova strada senza dover rinunciare alla loro “vocazione”.

Il vocabolario usato per parlare dei preti ex è datato, insufficiente e spesso pesantemente offensivo: vocazione tradita, ex prete, spretato, abbandono, uscita, laicizzazione.

Io non rinnego alcuna parte della mia vita. Ho scoperto che mi piaceva fare il prete ed ero accolto come tale, solo dopo il seminario quando sono stato gettato in mezzo alla gente.

Le parole che scrivo di getto sono legate alla mia esperienza e a quello che mi sembra di aver visto intorno a me. Come emerge da molti interventi attraverso la rivista Vocatio le sensibilità sono diverse, nel tempo sono cambiate ed è nata una nuova consapevolezza. Anche se ognuno è un caso a parte.

Chi sceglie o è costretto a non fare più il prete passa diverse fasi.

I fase: il senso di colpa davanti a Dio e ai fedeli, per aver “tradito” la vocazione.

II fase la nostalgia: ti piacerebbe essere reintegrato e tornare sull’altare con i paramenti sacri a celebrare messa e in confessionale ad assolvere.

III fase la sintesi: matura una consapevolezza nuova, psicologica e teologica di una scelta che ti ha cambiato la vita.

Teoricamente tutti noi abbiamo ragionato e siamo arrivati a buoni risultati di legittimazione della strada intrapresa. Perché la scelta che hai fatto dopo anni di seminario condizionato fin da bambino con un’educazione mirata e univoca, non ti ha lasciato una vera libertà. Perché la promessa di celibato per tutta la vita è un’imposizione innaturale e crudele. Perché nessuna altra professione diventa definitiva: la vita è lunga e deve esserci la possibilità di cambiare senza pagare prezzi troppo alti. I voti perpetui dei religiosi, secondo me, sono innaturali e contrari alla libertà di figli di Dio.

Ma non ci facciamo delle illusioni. Anche se razionalmente abbiamo una chiara comprensione di tutto ciò, psicologicamente rimaniamo condizionati.

Ci hanno martellato per 13 anni che tu es sacerdos in aeternum, che le promesse fatte a Dio non si possono tradire, che sei una persona sacra ecc. che quando un prete decide in genere perché si innamora di lasciare, deve superare tre blocchi: il senso di colpa, il giudizio dei parenti e dei parrocchiani, il vuoto lasciato da un impegno scelto e ben svolto davanti agli uomini e davanti a Dio.

La risposta di molti è quella di cambiare città, di cancellare il passato, troncare i legami precedenti (rimangono solo i legami familiari) e costruirsi nell’anonimato una vita nuova. Capita anche che il matrimonio di un prete può essere fragile e a rischio di fallimento, per il modo con il quale è nato: fidanzamento nascosto, sensi di colpa, impossibilitò di grandi scelte.

Altra risposta credo che rispecchi la strada di molti di noi, è stata costruirsi una comunità nella quale poter continuare a fare il “prete”.

Altre volte il vescovo locale o il parroco amico magari compagno di seminario, ti accoglie con benevolenza, come “un bravo cristiano” e ti impegna in qualche lavoretto. Tutti abbiamo avuto amici preti che si sono dimostrati comprensivi, sono stati dispiaciuti che abbiamo abbandonato. Ma è raro che codesti compagni ti cerchino o ti chiedano di usare le tue competenze per incontri ecc. “Se tu fossi rimasto, quanto bene avresti potuto fare” mi diceva il Vicario diocesano.

Il marchio di un giuda in forma ridotta ci perseguita. Ci chiamarono traditori, spretati, fedifraghi, che hanno gettato la sottana alle ortiche, adulteri della chiesa nostra sposa. Nel migliore dei casi “coloro che hanno lasciato”.

Questi preti ex non parlano comunque quasi mai, se non con grande imbarazzo, della loro prima vita.

Per quel che mi riguarda ho scelto di vivere con un gruppo di amici credenti con i quali sono uscito dalla parrocchia, insieme a mia moglie e alle mie figlie nel luogo dove sono stato parroco. Parlo con le persone che conosco, che ho battezzato, fatto la prima comunione, sposato. Racconto la mia vita a chi non mi conosce.

Cerco con fatica senza imbarazzi di unire gli spezzoni delle mie due o tre vite. Mi diceva il parroco della parrocchia “Beppe, ma perchè non smetti di fare il prete e vivi per la tua famiglia?” In verità me lo dice anche mia moglie ma con alte motivazioni.

Sette considerazioni

  1. Siamo stati fortunati: molti preti dopo i quarant’anni collassano. La solitudine, l’obbligo del celibato, il peso di un ruolo sacrale innaturale li schiaccia e deforma la loro personalità. Lo studio dello psichiatra, la pedofilia, un amore nascosto o l’adulterio, il suicidio, sono solo effetti collaterali di questo fuoco amico. Altri in verità vivono il loro celibato potenziando la disponibilità e la donazione della propria vita agli altri. Lo sappiamo perché lo abbiamo sperimentato.
  2. La chiesa come è oggi strutturata non può che considerarci dei traditori E’ una naturale difesa. Cosa vuol dire abbandonare? Chi abbandona lascia volontariamente una casa o una persona perché sceglie un’altra casa o un’altra persona che ritiene migliore. In verità nel nostro caso è stata lei la chiesa, ad abbandonarci anzi a cacciarci e a non sapere sfruttare ministerialità diversificate.
  3. Il prete guardato a bocce ferme è una figura anacronistica. Nel Nuovo Testamento non esiste. Hanno fatto dell’Ordine un sacramento con un segno indelebile. La figura del prete è stata costruita con anni di predicazione auto convincente. E’ un uomo-stregone che si crede dotato di poteri magici per cui le parole che dice funzionano ex opere operato, come un’aspirina: trasforma il pane nel corpo di Gesù; assolve dai peccati; anche ai morti dà benedizioni con effetti immediati con dell’acqua lustrale; impone le mani; gestisce l’aldilà con indulgenze e messe per i morti; veste con una divisa che lo distingue; i vescovi e i cardinali hanno paludamenti secenteschi, dettano le leggi morali e politiche; scelgono addirittura chi deve andare in paradiso creando i beati e i santi: hanno sistemato nei cieli autentici delinquenti. Questa concezione del prete comporta scelte suicide come quelle delle nostre diocesi che pur di assicurare il servizio sacramentale (messe ecc) assume militanze ausiliarie africane e polacche che non conoscono la nostra lingua e la nostra cultura, creando disagi e alle volte danni.
  4. Noi non possiamo più (almeno io) tornare a fare il prete come prima. È cambiata la nostra sensibilità attraverso anni di esperienza nuova; è cambiata la società e i cristiani. La figura del nuovo prete non sarà più un sacerdote, ma un presbitero un “anziano” cioè, un pastore. Una persona celibe o sposata con una famiglia che ti aiuta e ti supporta sentimentalmente; con una professione che ti sottrae dalla dipendenza economica e religiosa delle curie. Sarà disponibile a ore come del resto tanti preti oggi fanno già; sarà scelto dai cristiani possibilmente della sua comunità e consacrato dal vescovo. La “missione”, cioè, sarà ratificata ufficialmente dalla comunità e dall’episcopo. Sei uomo o donna, non giovane ma anziano (maturo) e responsabile. Come dice Paolo a Timoteo, devi godere una buona stima tra i cristiani e i cittadini. Sono loro che decidono della tua capacità di fare il pastore. Una persona equilibrata, matura psicologicamente equilibrato, onesta e capace di relazione umana. Per la gerarchia sembra che conti maggiormente mantenere un servizio liturgico e un tipo di controllo e di potere piuttosto che la diffusione e la testimonianza del vangelo. Pensiamo a tante piccole parrocchie abbandonate, senza un pastore e “servite” solo e non sempre da una frettolosa messa domenicale celebrata da un povero prete spesso anziano, che corre avanti e indietro a rischio della propria vita.
  5. Altro discorso andrebbe fatto per chi donna-suora, ha lasciato il convento. Se ne parla pochissimo e il pudore della scelta è doppiamente censurato non solo dal clero ma dalla donna interessata e dalle congregazioni stesse delle monache. Oggi non solo i seminari ma anche i monasteri sono svuotati. Non mi è sufficientemente chiaro il modo del reclutamento delle suore straniere.
  6. Non dobbiamo sentirci in colpa e bussare ‘umilmente pentiti’ alla porta della grande chiesa. Siamo diventati un’altra cosa. Non pretendo che la chiesa chieda perdono per l’emarginazione di tanti suoi “servi fedeli”. Lo farà tra cinquant’anni quando le cose saranno completamente cambiate. Noi abbiamo fatto coraggiosamente una scelta che altri non hanno voluto o avuto il coraggio e la possibilità di fare. I preti, le suore, i frati in primis e poi i cristiani dovrebbero uscire dal loro riserbo: gridare, scrivere, documentare che è ora di smettere questa ridicola farsa del celibato e dei voti perpetui.
  7. Il prete dunque, d’ora in poi sarà donna uomo non sposato o uomo e donna sposati. Sapendo, molti di noi ‘hanno provato, che la libertà di chi sceglie di non sposarsi per un tempo o per tutta la vita è una preziosa perla da non cancellare. Ma c’è un altro modo di fare il pastore o la pastora della comunità. Siamo scesi dal piedistallo e siamo tornati ad essere uomini. Benedetto sia il Signore in eterno. E’ stata la nostra salvezza.

Nessuna rivendicazione ma è necessario aprire un dibattito a più voci: non solo da parte dei preti o degli ex, delle loro mogli o amici, ma da parte dei cristiani, del popolo di Dio e dei cosiddetti laici cioè dei non preti. Non ci sono più, parafrasando Paolo, maschi e femmine, cattolici e musulmani, atei e credenti, laici e preti, suore e donne, vecchi e giovani, sposati e vergini. In Cristo siamo una creatura nuova.

Il nuovo pastore non sarà un prete ex, né il diacono di oggi, un buon laico padre di figlia, spesso dal prete classico più clericale del parroco. Sarà una figura nuova senza la preparazione teologica e spirituale tradizionale, molto libero. Saprà trovare strade originali atte a portare il vangelo alle persone di oggi. Testimone dell’amore di Dio e di Cristo speso al servizio, visibile, dei poveri e di tutti gli uomini alla ricerca di una speranza.

E non si dovrà più parlare di “crisi di vocazione”. Le comunità liberate dal totem del sacerdos in aeternum esprimeranno in abbondanza donne e uomini disponibili a dare la vita o parte di essa al servizio del Signore Gesù.

PS1. Queste mie parole non vogliono essere offensive per tanti miei amici preti. Ogni prete comunque quelli che sono rimasti preti e quelli che non lo sono più, hanno fatto sintesi diverse nella propria vita. Conosciamo tutti, ottimi preti, suore e vescovi che vivono testimoniando nella loro vita la parola di salvezza del Signore Gesù. Altri sono stanchi e provati. Altri ancora hanno trovato compensazioni non sempre nobili.

PS2. Sono entrato in seminario a 11 anni: ho fatto 5 anni di seminario minore a Nonantola e 8 di seminario maggiore a Modena. Da trent’anni sto scrivendo un libro sul seminario. Lo volevo chiamare in modo impietoso il “Lager di Dio”. Sostengo che per comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di molti preti e vescovi oggi “sessant’anni” bisognerebbe sapere il tipo di educazione che hanno avuto e come sono stati formati. Ho scritto un centinaio di cartelle ma non so che taglio dare per non offendere senza tradire la verità.

PS3. Nel 2015, in occasione dell’anniversario della nascita della nostra comunità di base, ho scritto un libretto “Se una domenica per caso” nel quale racconto il nuovo modo con il quale mi sembra oggi di continuare a “fare il prete” nel mio quartiere e nella ma comunità.

*di Beppe Manni

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